Dipingere canzoni

Il cervellotico pop degli Animal Collective alla prova del nuovo disco

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Animal Collective
Painting With
Domino

Chissà cosa devono aver pensato i viaggiatori in transito dall’aeroporto di Baltimora, lo scorso 25 novembre, quando dagli altoparlanti veniva diffuso a ciclo continuo il nuovo album degli Animal Collective, band originaria appunto della principale città del Maryland, ancorché newyorkese d’adozione. Probabilmente la stragrande maggioranza degli ascoltatori involontari nemmeno si è accorta di quell’anteprima non annunciata, che viceversa avrebbe mandato in solluchero i fan del gruppo e gli addetti ai lavori. Qualcuno, magari, si sarà domandato invece di chi fossero quelle canzoncine strambe: davvero niente a che spartire con le diafane “musiche per aeroporti” architettate ormai 38 anni fa da Brian Eno. Epidermicamente potrebbero sembrare pop, mentre in realtà lo sono in misura assai relativa. Del resto, gli “animali” – attualmente un trio composto da Avey Tare, Geologist e Panda Bear, stando agli pseudonimi – sono impegnati da sempre in un’esplorazione dei confini estremi di ciò che potrebbe essere considerato tale. Da un lato le armonie vocali, che richiamano la tradizione arcaica delle polifonie folk, e dall’altro un arredo sonoro d’impronta elettronica, immerso dunque nella contemporaneità.



Risultante esemplare e tuttora insuperata dei due vettori rimane Merriweather Post Pavillion (2009): autentico classico del XXI secolo e scomoda pietra di paragone per Painting With. Che non è affatto un cattivo disco, ma denuncia uno stato di appannamento nell’ispirazione del Collettivo, il cui estro dà l’impressione di essersi avvitato su se stesso. Registrato negli studi East/West di Los Angeles, dove prese corpo in parte il monumentale Pet Sounds dei Beach Boys, pare tragga spunto proprio da quel modello (“The Burglars”) e dalla sua ruvida evoluzione punk brevettata dai Ramones (“Natural Selection”), ossia brani concisi e melodie orecchiabili, ricollocando però la formula ai giorni nostri. Suona così l’iniziale “FloriDada”, ad esempio, nonostante le insidie acustiche del sassofono di Colin Stetson, presente pure nell’asimmetrica “Lying in the Grass”, divulgata alla vigilia dell’uscita dell’album in parallelo a un’omonima applicazione iOS per disegnare in condivisione (!). E in “Hocus Pocus” troviamo poi alla viola, come ai tempi dei Velvet Underground, addirittura John Cale, che tuttavia non riesce a elevare il brano oltre la soglia del mero esercizio calligrafico. Meglio l’immediatezza a presa rapida di “Spilling Guts”, piuttosto. Quanto ai testi, si va dalla guerra in Ucraina (“Bagels in Kiev”), paese di cui sono originari i genitori di Avey Tare, ai doveri ecologici (la conclusiva “Recycling”), e analogamente alla musica la sensazione è che tutto sia buttato lì in modo un po’ sconclusionato.

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