Voci e suoni dei migranti d'Italia

Due splendide uscite per Nota, a cura di Alessandro Portelli, raccontano la musica dei nuovi italiani

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We Are Not Going Back
A cura di Alessandro Portelli, Nota

Ez Kurdistan im
A cura di Hevi Dilara e Alessandro Portelli, Nota

La documentazione etnografica dei suoni, a ben vedere, si è sempre mossa su un doppio binario di raccolta e testimonianza, per capire il mondo e il “soundscape” in cui viviamo: c'è chi è partito con un registratore, andando a intercettare canti e suoni preziosi che rischiavano di scomparire per sempre, magari facendosi il giro del modo (ed è il caso dei Lomax), c'è chi ha puntato il suo “registratore stetoscopio” nei confini più o meno stabiliti di un paese, vivendoci, per cogliere i battiti nuovi di cuori in movimento che in qualche modo, quasi sempre a rischio della vita, sono riusciti ad arrivare qui, per sentirsi dire che non erano ospiti graditi. A volte, per veder aleggiare l'ombra del sospetto del terrorismo.

L'homo sapiens si muove e viaggia da quando ha imparato a camminare con la postura eretta, guerre e ingiustizie nella distribuzione delle risorse stanno semplicemente accelerando un processo che non si fermerà. Per questo, e del tutto degnamente, il primo cd della nuova serie Crossroads /Musiche migranti in Italia, prodotta da Nota in collaborazione con il Circolo Gianni Bosio, si intitola We Are Not Going Back / Musiche migranti di resistenza, orgoglio e memoria.

«Noi non torneremo indietro»: sono le parole, scandite a botta e risposta, che in questo cd aprono e chiudono la sequenza dei brani, e le ha registrate Andrea Satta sugli scogli di Ventimiglia nel 2015, dov'erano accampati i migranti. Non torneranno indietro: se ne facciano una ragione gli intolleranti che poi piangono sulle sorti di un'Italia (o qualsiasi altro paese europeo) spopolato di “veri” abitanti. La gente si muove, si mescola, e dove riesce ad attecchire porta un valore aggiunto di cultura che ne genererà altra. Tant'è che, anche qui, tra questi suonatori di mille strumenti, molte voci sono quelle di cittadini italiani a tutti gli effetti, ma con un nome “straniero”: c'è Jagjit Rai Meta dall'India, bracciante di stalla a Piadena, membro della Lega di cultura; c'è Steve Emejuru, tanti anni in Italia quanti gli anni vissuti da Cristo, che con un corno d'elefante chiama la “calma” della terra, perché accolga i corpi di chi il mare s'è preso. E sono migliaia e migliaia. Ci sono somali e afgani, rumeni e senegalesi. Ognuno ha una buona ragione da opporre a chi crede solo nel veleno identitario.

Un disco intenso e commovente, com'è intenso e commovente il secondo capitolo discografico della collana, ancora una volta curato da Alessandro Portelli (sue anche tutte le registrazioni, qui), in collaborazione con Hevi Dilara. Si intitola Ez Kurdistan im / Musica dal Kurdistan in Italia, e questa volta il discorso sull'identità si rovescia: c'è un popolo che non ha diritto ad averla, un'identità, per combinato disposto dei potenti della terra, esattamente come avviene ai Sahrawi del bordo africano atlantico, anch'essi un “non popolo” che non bisogna nominare, per non disturbare i manovratori.

Invece i kurdi esistono, in questi giorni combattono anche contro le legioni mostruose del Califfato nero, ma al contempo si vedono negato un diritto a un posto sulla terra dagli sgherri governativi turchi, fatti passare, tutti e indistintamente, per terroristi.

Racconta Hevi Dilara nel primo dei quattro racconti che accompagnano le splendide ventisei tracce del cd: «Io vengo dal Kurdistan, dal paese che non c'è. Esiste ma non c'è. La mia città, dove sono nati anche i miei genitori, è la città di Urfa. In antichità i romani la chiamavano Edessa. Tanti la chiamano la città dei profeti. C'è anche un detto sulla mia città, che lì anche gli asini quando nascono, oppure quando gridano, il loro tono non è stonato».

Urfa è un città multietnica, multiculturale; ci vivono arabi, kurdi, nell'antichità ci vivevano no i caldei, assiro-babilonesi. Poi sono arrivati gli arabi, e poi i turchi. La musica curda che qui ascolterete, come si precisa nelle note, ha carattere millenario, è soprattutto popolare e anonima, le canzoni hanno a carattere strofico, e dall'asprezza più o meno accentuata si riconosce l'origine montanara o di pianura dei brani. È quasi sempre musica da danza, in tempi pari, e che usa pressoché tutti i maqam, i “modi” tradizionali della musica mediorentale. Una musica “che non c'è”, come vogliono farci credere, da cominciare ad ascoltare.

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