Epica calabrese

Del sangue e del vino (Rubbettino) è il primo romanzo di Ettore Castagna, musicista e antropologo

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Ettore Castagna
Del sangue e del vino
Soveria Mannelli, Rubbettino 2016

Per chi conosce Ettore Castagna, antropologo, ricercatore, operatore culturale (ideatore e per anni direttore del festival Paleariza), polistrumentista e compositore calabrese (leader di gruppi come Re Niliu, Nistanimera e Ferrovie Calabro-Lucane), saggista (ricordiamo la sua ricerca La lira in Calabria, i volumi Sangue e onore in digitale, Rappresentazione e autorappresentazione della ‘ndrangheta, U Sonu. La danza sull’Aspromonte Greco, quest'ultimo per Squilibri), è difficile pensare a Del sangue e del vino come alla sua prima opera di narrativa. Non solo perché nel lontano 1999 aveva pubblicato Una Fiaba Bizantina (Il Pontesonoro), ma perché il suo raccontare in note la tradizione orale della Calabria, soprattutto quella grecanica, è sempre stato segnato dal forte potere affabulatorio, ma anche dalla capacità di produrre meccanismi narrativi che ricombinano moduli culturali antichi: insomma, linguaggi popolari appresi da cantori e suonatori ma anche creazione e improvvisazione di artista colto. E poi c’è la coscienza della forte matrice ellenica insita nella cultura calabrese (si veda ad esempio il libro con Salvino Nucera, Sette Canzoni Orientali, Pontari Editore, 1999).

La riflessione antropologica è il motore del profilo eclettico di Castagna, che lo ha spinto a incrociare le rotte di letteratura, ricerca, giornalismo, musica, comunicazione. Purtuttavia, è vero che Del sangue e del vino è la sua prima scrittura di romanzo, in cui Castagna non nasconde di avere guardato, con le dovute proporzioni, all’epopea màrqueziana, ricondotta nell’Aspromonte di fine Seicento, rurale e feroce, elaborando un linguaggio forgiato apposta per questo romanzo.

Castagna racconta tre generazioni di greci, a partire dalla coppia di migranti, profughi pastori cretesi, che hanno pagato salato ai pirati veneziani che solcano il Mediterraneo il passaggio su una nave (o è un barcone di oggi?) per raggiungere le coste joniche dove sono accolti da gente che, come ancora fanno loro, si segnava con la croce all’incontrario. L’epopea degli sposi Dimitri e Agàti e della loro progenie si snoda nella terra aspromontana, dalle parti del fiume Amendolea, ri-denominato Leucopotamo, tra campi coltivati, greggi e fiumare che circondano il piccolo paese di Selènu, che finisce sconquassato dalla natura e che poi sembra essere il borgo, ghost-town, di Roghedi.

Ettore Castagna produce una scrittura incalzante e avvincente anche per il suo scavo linguistico che combina un italiano dotto con uno che è impregnato di terra, che vive delle credenze del “sud magico” della lezione demartiniana; una lingua vitale, ora fertile ora aspra, come la terra vissuta dai protagonisti, aperta a interferenze di diversi idiomi: veneziano, calabrese, grecanico, greco. L’io narrante in terza persona è esterno alla vicenda, intervallata alla fine di ciascuno dei tredici capitoli principiati da titoli-sommario da un corsivo che esalta il legame materno, la trasmissione della memoria con Caterina – la figlia della coppia di profughi – che si rivolge a suo figlio Nino, frutto nato da un incontro con un mercante veneziano.

Dati biografici, ipotesi etnomusicali, letture antropologiche e proiezioni immaginifiche di Castagna si fondono nella narrazione: alle feste Dimitri suona la lira cretese, strumento piriforme scavato da un unico pezzo di legno, tre corde di budello e un archetto di crini di cavallo. Dimitri suona le canzoni della sua fanciullezza, ma non fatica ad apprendere quelle della nuova patria: «Uno strumento simile, da quelle parti non si era mai sentito», ecco che Castagna sembra alludere a una possibile introduzione del cordofono nella Calabria grecanica. Ecco allora il suono, il ballo, il rito e la festa, che si intrecciano con il cibo e la sessualità: elementi focali di quel mondo pastorale e contadino che l’autore ha vissuto fin dagli inizi della sua ricerca sulla tradizione orale in Calabria nei primi anni Ottanta del secolo scorso. Il sangue è elemento sacrale, ambivalente nel suo simbolismo di morte (“il sangue chiama sangue” dell’onore, della vendetta e della faida) e di vitalità, centrale così come lo sarà il vino, sangue della terra, nell’avvincente, poetica conclusione del romanzo.

Poi c’è il fattore magico, impersonato da Zi Mela e dalla stessa Caterina, che dalla vecchia magàra apprende l’arte magica e della tessitura. Ma in questo scenario si aprono conflitti di potere simbolico: quello con il malvagio parroco locale Don Monorchio, dalla cui relazione con la sua governante nasce Vitemmorte Carminieddu, figlio non riconosciuto. Monorchio vuole estirpare la lingua greca opposta al “suo” latino, che poi significa disciplina della mente oltre che del corpo e il confronto sullo sfondo dell’esercizio del potere baronale tra contadini e pastori che si occupano delle coltivazioni e delle greggi. Il drammatico epilogo si risolve nella prodigiosa rinascita della vita e della memoria, nella quale il vino – “trasparente sangue di vigna” – prende la scena.

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