Le tre voci di Medea

Intervista a Michele Gamba che dirigerà l'opera alla Scala

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Michele Gamba  (Foto Matteo Carassale)
Michele Gamba (Foto Matteo Carassale)

Il 14 gennaio Médée approda alla Scala per la prima volta in francese, l'ultima apparizione dell'opera di Cherubini è stata (ma in italiano) nel maggio del 1962 con la mitica interpretazione di Maria Callas. Questa edizione non è tuttavia quella canonica andata in scena al Théatre Feydeau di Parigi il 13 marzo del 1789, perché senza i dialoghi richiesti dalla forma dell'opéra comique. Sul podio Michele Gamba (reduce di una recente trasferta in Dubai con gli organici scaligeri), regia di Damiano Michieletto, scene di Damiano Fantin e costumi di Carla Teti. Il cast: Marina Rebeka (Médée), Stanislas de Barbeyrac (Jason), Nahuel Di Pierro (Créon), Martina Russomanno (Dircé), Ambroisine Bré (Néris). Prima 14 gennaio; repliche: 17, 20, 23, 26 gennaio.

Inevitabile domandare al maestro Gamba come sono stati sostituiti i dialoghi che, oltre essere parte integrante della drammaturgia, servono a spiegare antefatti e situazioni sceniche.

"Michieletto si è valso di testi scritti appositamente da Mattia Palma e trodotti in francese; sono registrati come voci dei bambini di Medea che, oltre a manifestare la partecipazione al dolore della madre, servono anche da guida all'ascolto. Qualcosa potrebbe mancare, ma il più viene esplicitato dalla messa in scena. Palma ha funzione di dramaturg nell'allestimento e insieme col regista sono stati molto attenti a coprire le fratture che si sarebbero create senza le battute originarie. La storia alla fine fila. Ovviamente Médée è fatta di numeri chiusi, ma esiste una continuità e abbiamo lavorato perché venisse rispettato il filo rosso che lega i vari momenti."

Rimane il fatto che lo spettatore ascolta una musica di fine Settecento, in qualche modo erede di Gluck, della mozartiana Clemenza di Tito, mentre vede scene e costumi contemporanei, con Medea presentata come dropout.  

"Dapprima può essere uno shock, ma sono convinto che risulta preponderante la coerenza drammatico-musicale, proprio perché con Michieletto abbiamo lavorato sempre di conserva, fin dall'inizio in sala prove. Nessuno di noi ha preso una strada da solo, l'abbiamo scelta di comune accordo. Come direttore potrei rivendicare una mia posizione se il punto di vista del regista fosse diverso dal mio, dovrei per forza farlo presente, altrimenti non avrei le risposte che voglio dai cantanti; ma in questo caso non c'è stato bisogno, perché Michieletto è attentissimo alle esigenze del podio. Il risultato è che ritmo drammaturgico e atmosfera musicale sono andati di pari passo. Lo sfasamento temporale fra partitura e messa in scena non ha creato problemi."

Ovviamente nessun problema nemmeno per i momenti prettamente sinfonici. Il preludio al primo atto è il biglietto da visita della sua interpretazione.

"Sarebbe molto facile anticipare Beethoven, l'atmosfera è drammatica, il fa minore poi rincara la dose. Ma credo sia giusto trattenersi, Cherubini ha un suono snello, deve molto a Mozart, a Haydn, ritengo che accennare a Beethoven sia ingiustificato."

Stesso discorso vale per il lungo preludio al terzo atto. È un momento impressionante per violenza e per i colori dell'orchestra.

"La fluidità della scrittura di questo preludio è qualcosa che si percepisce subito, è musica che scorre e non ristagna mai. In tutta l'opera la cosa più difficile, parlando in termini pratici, è proprio la gestione dei tempi. Cherubini per il preludio al terzo atto dà l'indicazione di Moderato; ma la sua musica per come aderisce alle situazioni drammatiche è sempre fluida, spesso potentemente sinfonica e quindi la gestione dev'essere quella di un climax drammatico. In tutta l'opera la cosa più difficile è una sorta di ipertrofia strumentale, perché ti ritrovi delle iperboli che preludono addirittura a Berlioz, mentre l'humus culturale da cui proviene è di fine Settecento e lo devi rispettare."

E il finale dell'opera?

"Anche qui c'è un problema di coerenza di drammaturgia musicale col lungo recitativo di Medea. C'è un breve coro e poi tutto finisce lì. Intanto  Cherubini ha lasciato scritto della possibilità di fare innumerevoli ritornelli a seconda della necessità dopo il coro di chiusura. Segno che era molto attento alle esigenze della scena. Va tenuto conto che si tratta di musica per il teatro, la partitura vive attraverso il teatro. Per esempio, l'introduzione al finale, che inizia col recitativo di Medea, è qualcosa che si può soltanto costruire in tre: il direttore, il soprano e il regista. Durante le prove non può essere assente nessuno, vanno stabiliti i silenzi, le pause, le gestualità rispetto al gesto musicale."

Le tre voci femmnili sono molto diverse.

"Dircé è un prototipo di voce mozartiana, di grande trasparenza e agilità, in certi passaggi ricorda la Regina della notte. Va tenuto conto però che l'acustica della Scala è secca e quel genere di voce deve poter correre. Néris invece è mezzosoprano, nel secondo atto ha l'unica aria d'amore dell'opera, naturalmente rivolta alla padrona Medea, in duetto col fagotto concertante. Ci si aspetta corposità ed espressività. Quanto a Medea, è una e trina. Inizia col lirismo della prima aria, la più celebre, quella che ha incoronato la Callas, per poi evolversi in modo sempre più drammatico. Cherubini con lei si allontana dalla tradizione dell'opera italiana, non c'è nemmeno una linea melodica, ci sono incisi vocali nel tessuto orchestrale. Come direttore non posso fare da accompagnatore del canto, tipo "Caro nome", perché col soprano siamo entrambi su un binario prettamente strumentale."

 

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