Voci bulgare, il Mistero vent'anni dopo
Il ritorno del coro bulgaro con BooCheeMish, con ospite la voce di Lisa Gerrard dei Dead Can Dance
Furono un fulmine a ciel sereno quelle voci imprendibili, quelle polifonie nitide e spigolose, di una perfezione asciutta e quasi geometrica, quando le sentimmo per la prima volta, nel 1992, per di più in un contesto del tutto inaspettato come un pezzo come "Pippero" di Elio e le Storie Tese. Si svelò così alle nostre orecchie allora ancora vergini a suoni di questo tipo il Mistero delle Voci Bulgare, che torna ora dopo vent'anni con BooCheeMish, assieme, in alcuni pezzi, alla voce dei Dead Can Dance, Lisa Gerrard.
I caratteristici intervalli di seconda, di quarta e di quinta con cui vengono orchestrate le partiture vocali dell’ensemble emergono subito in "Mome Malenko", scritta da Petar Dundakov, agile e affilata, su un ritmo dispari (David Kuckhermann alle percussioni) che rotola e ipnotizza e non suona così distante da certe cose di Iva Bittovà. Ancora un ritmo sbilenco anima "Pora Sotunda", dove appare la Gerrard, la cui vocalità nitida e piena si sposa perfettamente con le architetture celesti delle ventisei protagoniste del coro (dirette da Dora Hristova da venticinque anni), per sbocciare poi in un luminoso fiore pop.
Meno riuscita "Rano Ranila", che vede la partecipazione al beatbox di SkilleR, per una contaminazione che suona un poco posticcia. Di nuovo si vola subito alto con "Mani Yanni", ancora con la Gerrard, tra profili di chiostri, quiete pensosa e inni di devozione al Dio della voce. Vengono in mente alcuni versi di Mariangela Gualtieri, poetessa la cui visione accorata e fondata su semplici elementi pare trovare una sponda acustica in questi madrigali antichi eppure familiari:
"È breve il tempo che ci resta. Poi saremo scie luminosissime. E quanta nostalgia avremo dell’umano. Come ora ne abbiamo dell’infinità. [..] Una nostalgia d’imperfetto ci gonfierà i fotoni lucenti[…]".
Se all’ascolto di alcune tracce è proprio una nostalgia d’imperfetto a prenderci (a tratti la produzione è troppo scintillante, quando questi pezzi avrebbero bisogno di essere scabri, nudi, lasciati intatti nella loro remota ed ancestrale semplicità) resta comunque un unicum inimitabile la musica di questo collettivo, capace negli anni di suscitare l’ammirazione di musicisti come Paul Simon, Frank Zappa, Crosby, Still, Nash & Young.
Interessante anche se non del tutto a fuoco l’esperimento di "Sluntse", dove la voce in realtà scompare dopo meno di un minuto per lasciare il sipario al timbro fantastico della gadulka, una sorta di chitarra-violino bulgara, che abbiamo già avuto modo di ascoltare dal vivo con Les Violons Barbares. Se la prima parte è forse troppo didascalica, poi il pezzo prende uno sviluppo avvincente, quasi folk-jazz. Austera ed ipnotica "Zableayo Agne", con il soffio affilato e sfuggente del kaval di Kostadin Genchev. Come una nenia millenaria "Ganka", e da musica classica la chiusura con "Stanka", assieme a un quartetto d’archi.
Al netto di qualche tentazione pop che sarebbe stato meglio mettere nel cassetto, un ottimo ritorno e finalmente per noi la possibilità di esplorare di nuovo l’inspiegabile e l’indicibile attraverso il mistero delle voci.