Roberto Negro, pianoforti sicuri ed elettronica avventurosa
Kings and Bastards, il nuovo lavoro del pianista Roberto Negro, esce per CamJazz
Una brutta copertina non è un solitamente un buon biglietto da visita per un disco, ma i glitches e i bordoni che ci accolgono, come un tuffo in un mare glaciale, tra voci di balene e banchi di krill sorprendono, ed è questa una della caratteristiche che maggiormente apprezziamo in un disco: la capacità di proporci l’inatteso.
L’incipit del primo disco solista di Roberto Negro, italiano trapiantato a Parigi, che qui si cimenta al pianoforte (anche preparato) e all’elettronica promette bene. Un clima languidamente artico che ricorda da vicino certi frangenti dell’ultimo Hobby Horse ("Fahrenheit 0.2", siamo dunque quasi a 18 gradi sottozero) per poi aprirsi a una melodia larga, vagamente memore di certo Gismonti, ma a un passo dalla bella calligrafia.
Decisamente più interessante e personale l’esperimento di "Kings & Bastards", come un carillon rotto dal groove implacabile, tra labirinti matematici, fughe à la Steve Reich e un mood vagamente prog. Una possibile risposta allo zen funk dei Ronin di Nick Bartsch, capaci di lasciare a bocca aperta al primo impatto ma poi alla lunga un po’ troppo algidi. Tra panorami assorti e brumosi ("François il Riformista"), missioni lunari ("Fahrenheit 1.7") e Afriche possibili, minimali ed elettroniche ("Lemba", sinuosa ed interrogativa, splendida), il disco scorre mostrandoci le varie facce di un musicista che non ha timore di cercare una propria strada e a volta sa trovarla con ottimi risultati.
Se gli episodi al pianoforte sono quelli che convincono meno (non perché manchi talento a Negro, ma sicuramente perché è difficile oggi ampliare il vocabolario delle composizioni per pianoforte nudo e non suonare comunque in qualche maniera almeno in parte didascalici, a meno di non chiamarsi Craig Taborn o Gianni Lenoci, per restare in Italia), la strada da perseguire con sempre più convinzione è quella dell’abbraccio con le macchine: "Scaramouche" ad esempio, finchè è "solo" al piano ci mostra un musicista sicuro, pienamente padrone dello strumento, eclettico, virtuoso (caratteristica che ci appassiona a dire il vero poco, nella musica) ma la cosa inizia a farsi davvero interessante quando arriva l’elettronica a interferire con le ripetizioni sui tasti, aprendo possibilità, scenari, mondi.
Se alcuni passaggi suonano prescindibili ("Il Gattopardo", e in generale tutti i momenti più classicamente melodici), l’idea di far virare Bill Evans verso l’ambient è invece avvincente ("Giò") e la chiusura con i quasi otto minuti scabri e psicologici di "Beaumarché" (sembrano quasi usciti dalla fucina di Touch Records, ed è un complimento) ci lascia con la speranza che Roberto Negro molli gli ormeggi che lo tengono ancorati a porti sicuri per avventurarsi in mare aperto, sin dal prossimo disco.