Ornette secondo Tononi
Tiziano Tononi omaggia l'arte di Coleman, "Picasso del jazz", in Forms and Sounds / Air Sculptures
«Ho incontrato Ornette due volte», racconta Tiziano Tononi nel libretto di Forms and Sounds / Air Sculptures. «La prima volta fu nel 1995, a Tampere, in Finlandia, dove ero andato a suonare con Nexus. Dopo il soundcheck tornai in albergo, chiamai l'ascensore, e – boom! Si aprirono le porte e c'era Ornette, in uno dei suoi scintillanti completi. Tremavo per l'emozione e riuscii appena a dirgli che era una delle figure musicali più importanti della mia vita. L'altra volta fu a Padova, qualche anno dopo, quando ebbi finalmente l'occasione di dargli i due dischi che avevo registrato della sua musica [Peace Warriors volume one, Black Saint, 2005 e Forgotten Children, un doppio sempre per Black Saint del 2007] e lui mi ringraziò baciandomi la mano».
I sogni del giovane Tononi
Un profondo legame umano oltre che musicale traspare da queste parole del batterista compositore e band leader Tiziano Tononi che, alla guida dei suoi Ornettians, in questo disco tributa in modo vivo e sincero il grande genio di Forth Worth con una suite autografa e otto versioni di composizioni colemaniane. Il sipario si apre proprio su “The Air Sculptures Suite/ A Celebration of Free Jazz”, ovvero un omaggio al capitale lavoro di Ornette del 1961 che tanto ha influito nello sviluppo della musica creativa afroamericana (e non solo): sette episodi febbrili e ispirati, con un ensemble di musicisti di ottimo livello , tra cui segnaliamo il volino di Emanuele Parrini, la viola di Paolo Botti, il contrabbasso di Silvia Bolognesi (che ha partecipato alle registrazioni del nuovo disco di Art Ensemble of Chicago, We Are on the Edge, fresco di uscita per Pi Recordings).
Un mood orgiastico, da delirio controllato e calibratissimo, con groove inesorabili e sinuosi (“Fireworks in N.Y.C.”) e orchestrazioni che fanno fiorire misteri antichi e sempre nuovi nell'orecchio, stomp ossuti e trascinanti (“Forth Worth Country Stomp”), spigoli scovati dagli archi, dove si annidano segreti da custodire come promesse “(Dreamers and Poets, Hopes for the Future”), mentre intanto impazza un caos fertile e ribelle.
Altrettanto riuscite e trascinanti le otto versioni di brani di Coleman, all'insegna di una febbre creativa indomabile: da “What Reason (Could I Give)” , privata della voce e vestita di spine, tratta da Science Fiction del 1972, a “Una Muy Bonita”, da Change of the Century del 1960, fatta virare verso lande più scure e ancora più oblique grazie a un pastoso e ficcante groove di contrabbasso che ne fa brillare la natura sghemba ed imprendibile. Poi ancora “Law Years”, sempre da Science Fiction, un tema che continua a guardare avanti pur avendo all'anagrafe quasi cinquant'anni. Chiude una versione più spirituale e vicina all'originale, ma pur sempre priva della voce, di “What Reason Could I Give”.
Tononi definisce Coleman il Picasso del jazz; da qui allora l'idea di fornire a ogni musicista coinvolto un riferimento visivo per ciascuno degli episodi della suite iniziale: dunque Jackson Pollock, Robert Rauschenberg, Alberto Burri e altri. E allora, quali migliori parole di quelle del grande poeta messicano Octavio Paz, tratte proprio da una poesia intitolata “Un vento chiamato Bob Rauschenberg”, per dire di un disco urgente e ispiratissimo, coi piedi ben saldi nella storia e lo sguardo lanciato senza timori verso il tempo di domani?
[..] Il vento sente quanto dice l'universo
e noi quanto dice il vento
muovendo il fogliame sottomarino del linguaggio
e le piante segrete del sottosuolo e del sottocielo:
i sogni delle cose l'uomo li sogna,
i sogni degli uomini li pensa il tempo.