Ifriqiyya Electrique, trance elettrica
Il progetto di François Cambuzat rilegge il rituale del banga in chiave post-rock
Può un disco essere minaccioso e possente al contempo? Certamente. Basta riandare col pensiero a certe contaminatissime avventure di Bill Laswell cacciatore di suoni “altri” dal mondo, da impastare nelle fibre musicali dilatate del suo basso elettrico. Oppure tornare con la mente a certe lontane esperienze di un prog rock a caccia di luminose tenebre: si pensi ad esempio all'implacabilità ritmica dei gloriosi Can nella Germania sperimentale di un quarantennio fa.
Il primato dell'oscurità “etno” però nel frattempo se lo aggiudica questo splendido e perturbante capitolo a firma Ifriqiyya Electrique, Rûwâhîne, ascolto (e anche un documentario) non esattamente rilassante... a prima vista, anche se al secondo minuto le vostre orecchie faranno da tramite con una pulsazione bassa che vi si irradierà inesorabilmente nel corpo.
Ifriqiyya è un progetto di musica Sufi legata al rito e alla trance, e al contempo alla più inquietante battuta ritmica dell'Occidente. Il termine, peraltro, in remota era medievale designava un territorio che comprendeva la Tunisia, parti dell'Algeria e della Libia, in pratica l' “Africa” dei romani. Di Ifriqiya, il progetto, è responsabile in prima persona François Cambuzat, chitarrista avant rock della scena post punk e ricercatore nel campo della registrazione sul campo etnografica, insieme a Gianna Greco, bassista. I due – peraltro – costituiscono i Putan Club assieme a Lydia Lunch.
Ogni anno, nel sud della Tunisia, si tiene il rituale sufi e gnawa banga: accorrono tutte le comunità nere discendenti degli schiavi hausa che in Tunisia furono trasferiti a forza nei secoli, e scatta il rito della possessione, scandito a ogni secondo dalle terzine delle nacchere qaraqueb, dai tamburi, dalle voci profonde a coro e in risposta a un solista che “lancia” le invocazioni. Cambuzat ha selezionato quattro magnifici musicisti del banga, Tarek Sultan, Yahia Chouchen, Youssef Ghazala e Ali Chouchen al nagharat, doppio tamburo da percuotere con le mazze. Poi ha fatto interagire elettricità e suoni elettrici pulsanti con il battito antico e le voci, in pratica destrutturando e ristrutturando il tutto, ma con l'intento, per usare le sue parole, di «guidare verso l'elevazione, il sudore, la poesia, le lacrime, non di costruire una graziosa cartolina musicale colorata». Missione compiuta, si potrebbe dire.