Bluering, space is (still) the place
Primo volume (per Rudi Records) del giovane collettivo di improvvisatori Bluering
Iniziamo dalla fine, una volta tanto. Un ostinato di fiati, come una delle fasi reichiane per violino o pianoforte trasposte per ance e innervata di benefico swing; la chiusura di questo Bluering vol.1 è all'insegna di un curioso minimalismo post bop, con un drive di basso e batteria portato per mano dai fiati e ottime incursioni di pianoforte e chitarra a stranire il mood, con Sun Ra ad annuire sullo sfondo. E il titolo, "Keplership Blueringers All the Night" , accende micce che portano dritte dritte nello spazio, alla ricerca di altri mondi abitabili e di altre forme di vita (date un'occhiata al sito keplershipyards.com, ad esempio). La terza delle famose leggi dell'astronomo e teologo tedesco, fu inserita in un testo che si occupava, guarda un po', anche di musica. Keplero in effetti era convinto che Dio non fosse solo, per così dire, il geometra del cosmo ma anche un musicista e sostenne l'idea che la musica e il sistema solare fossero manifestazioni della medesima armonia. Ora che tutti, da poco, abbiamo potuto vedere le straordinarie immagini del gigantesco buco nero nel cuore della galassia Messier 87, possiamo divertirci a immaginare quale suono potrebbe descrivere paesaggi così inediti per i nostri occhi.
Cercano di esplorare le zone di luce e i secoli d'ombra dell'improvvisazione collettiva le nove tracce dell'esordio, Bluering vol.1 di questo collettivo di giovani jazzisti guidato da Tobia Bondesan, sax tenore e soprano (qui in veste di direttore) membro anche della Tower Jazz Composers Orchestra e primo laureato della Università Jazz di Siena. L'ensemble è largo (tre voci, sette sassofoni, una tromba, due tromboni, due clarinetti, un flauto, due pianoforti, una chitarra, un contrabbasso ed una batteria) e tutti i musicisti si dimostrano abili però nel calibrare gli interventi, restando un passo indietro dove necessario per lasciare che il suono si sviluppi creando spazio, stabilendo i confini di galassie dove timbri e dinamiche concorrono in egual modo a rendere suggestivo il viaggio, tra languori mingusiani ("Quietness of Fighters"), sipari come un Bernard Hermann patito di jazz ("Prelude", che curiosamente ha un breve lampo dove affiorano a galla benvenutissime memorie dell'immortale tema di "Round Midnight") o agguati e veglie ("Interlude", sarebbe interessante provarla come sonorizzazione delle immagini di Psycho o di un altro classico hitchcockiano), tra fragori da big band e le ellissi che solo un'orchestra può ottenere.
Viaggia su orbite ampie e lontane dal prevedibile e dalla musica accomodante questo nutrito gruppo di musicisti: ne sono dimostrazioni le parentesi dove, sparita la pulsazione di basso e batteria, i fiati tessono un ordito che sa di minimalismo e musica ripetitiva, con un groove indefinibile e misterioso che si gioca sull'apparizione e sparizione di singoli elementi (i segnali morse di una chitarra, il richiamo celeste e terreno delle voci).
Il collettivo ha a lungo sperimentato nel campo dell'improvvisazione aprendo le porte anche a musicisti esterni ad esempio in uno spazio come il Mercato Sonato di Bologna. Parole d'ordine: dialogo, nessuna preclusione sui generi e focus solamente sulla musica come stella polare da seguire in quella che viene considerata a conti fatti una vera e propria esplorazione. È proprio questa stessa attitudine libera e devota alla ricerca che anima questo disco, dimostrazione suonante di come, fortunatamente, in Italia siano ancora tanti le teste che non si vogliono rassegnare a una certa visione del jazz.
Space is (still) the place.