Bessie Jones secondo Silvia Bolognesi
Il quartetto Young Shouts di Silvia Bolognesi rilegge magistralmente le composizioni della "madre coraggio della tradizione afroamericana"
Bessie Jones, nata all'alba del ventesimo secolo e morta nel 1984, è stata una cantante, definita da Alan Lomax, che la incontrò nella sua Georgia, la "madre coraggio della tradizione afroamericana". A questa figura importante nella diffusione della tradizione orale e nella costruzione delle radici della musica nera è dedicato questo bel disco di un quartetto (Young Shouts) guidato da Silvia Bolognesi, contrabbassista che chi segue le vicende del jazz conosce bene e che da qualche tempo ha avuto anche la possibilità di entrare nell'ultima formazione di Art Ensemble of Chicago.
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Il quartetto, nato in seno ai corsi di Siena Jazz dove la leader è didatta, vede Attilio Sepe al sax alto, Emanuele Marsico a tromba e voce e Sergio Bolognesi alla batteria. Come diceva Gustav Mahler, la tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri, e le sette tracce rispecchiano perfettamente questa attitudine: risalire la corrente, confrontarsi con la Storia, con la memoria, ma non ripeterla in modo pedissequo, semmai cercare di dare nuova linfa a storie che sono ancora vive se sappiamo raccontarle con la giusta attitudine e non trasformarle in reperti museali o fossili muti.
La Jones era una delle performer più popolari nel circuito folk negli anni Sessanta e Settanta, aedo del southern black folk: le sue canzoni erano puro distillato Negro Spiritual, call and response che si reggevano su un pugno di note e sull'interazione con i partecipanti alla preghiera o alla giornata di lavoro nei campi. Su questi testi, inzuppati di religiosità terrigna, sporchi fino ai gomiti di terra (le liriche di Shoo Turkey), ma con lo sguardo sempre rivolto al cielo, fioriscono composizioni grondanti negritudine ma prive di qualsiasi sguardo oleografico.
I musicisti imbastiscono sette composizioni pugnaci e poetiche, languide e puntuali, affilate e suadenti. Un groove sempre fluido e possente, una scrittura nitida ed essenziale caratterizzano un lavoro che trova nella verve dei solisti e nella forza del collettivo una voce personale e calda, che racconta ancora una volta l'infinita storia delle origini della musica che tanto ci appassiona. Steve Lacy, un altro che ha dedicato una vita allo studio e alla reinterpretazione del passato senza mai scadere nella didascalia, ma mirando a farne brillare il cuore ( stiamo parlando ovviamente del suo lavoro su Monk), era solito dire: «Life's always the same, always the same, always the same. Then it changes».
Ed ecco che le parole della Jones si sposano a meraviglia con le architetture intelligenti, vivide e dense degli Young Shouts e riemergono a nuova vita. Gli episodi di vita dura a lavorare nei campi diventano paradigmi universali, il canto vitalistico di dolore e libertà anelata – ma in qualche misura inestirpabile – brilla di una luce che non finirà, perché la libertà è nel canto stesso: si pensi al poeta turco Nazim Hikmet che mentre era costretto a spalare merda dai suoi carcerieri, davanti a loro, cantava a pieni polmoni, o agli stessi schiavi nelle piantagioni, il cui sangue scorreva nelle vene di Bessie Jones. E allora questo sangue viene pompato da un cuore jazz forte e fiero, e questo canto libero ancora risuona vero e urgente nelle invenzioni disseminate lungo i solchi di un disco che è un vero e proprio inno vitalistico alla musica, da ascoltare (speriamo presto anche dal vivo!), condividere e riascoltare ancora.