Amedeo Verniani, è nata una stella?
Due., del ventunenne contrabbassista Amedeo Verniani, è in perfetto equilibrio tra astrazione, riflessione, avanguardia e tradizione
Un mood bandistico, sornione, un incipit che trae in inganno (e le cose si mettono sempre bene quando chi ascolta di primo acchito resta spiazzato): si apre poi il sipario su un'improvvisazione informale e giocata su dinamiche tra il piano ed il pianissimo, con il violino del bravissimo Emanuele Parrini a fendere un buio da cui balenano lampi tematici affilati.
Così comincia il disco d'esordio del giovanissimo (ventuno anni) Amedeo Verniani, contrabbassista e leader di un quintetto completato da Tony Cattano al trombone, Joseph Nowell al pianoforte e Pierluigi Foschi alla batteria.
Un disco sorprendente – questo Due. – per la maturità della scrittura del titolare, libera e personale, capace di muoversi con disinvoltura tra ombre mingusiane pervase da una febbre melodica languida e sottile ("Gregor Samsa"), metamorfosi necessarie e inaspettate anche all'interno della stessa composizione. Un vaghissimo blues, un incedere antico, quasi una invocazione ai demoni del silenzio o al duende del flamenco, forme aperte, dentro le quali pensare coreografie più che strutture, con gli strumenti liberi di muoversi negli ampi spazi prendendosi la libertà che vogliono ("Autoritratto parte 1: per Egon Schiele").
John Cage diceva: «Ciò che impariamo non è quello che ci insegnano né ciò che studiamo. Non lo sappiamo, che cosa impariamo».
Ecco, l'inquietudine e il senso di indicibile che animano queste musiche di Verniani sembrano una dimostrazione plastica di questa posizione. Pezzi/luoghi che sono al crocicchio tra composizione istantanea e partitura e dove si avverte costantemente una benvenuta sensazione di rabdomanzia, come un procedere a occhi chiusi utilizzando altri sensi in territori ignoti per trovare una fonte. Dove trovare vene d'acqua che hanno il fascino senza tempo e la classicità altera ed enigmatica di Duke Ellington, ma anche la capacità ricombinatoria della musica creativa (i Very Very Circus di Henry Threadgill?).
Ogni musicista coinvolto si dimostra lievissimo e cruciale: "Lilicka" mette in luce il pianismo pensoso e antiretorico di Nowell per poi far sbocciare un delicato fiore dalle fragranze quasi folk. Tutto resta sottotraccia, suonato in punta di dita (esemplare il lavoro di Cattano al trombone in questo senso, perfetto nel restare sempre un passo indietro), come nel carillon che troviamo una volta aperta la scatola del "Viaggio". "Il dono del disegno" chiude con languori siderali, intonando una preghiera a bocca chiusa a dèi che non si decidono a darci udienza, nascosti e austeri. Sette capitoli per una ipotetico libro da intitolare Storia Illustrata del Grande Nulla.
Un disco, prodotto dalla Fonterossa Records di Silvia Bolognesi, di grande, grande (la ripetizione è voluta) forza narrativa, in perfetto equilibrio tra astrazione, riflessione, avanguardia, tradizione, capace di affermare la propria voce restando sempre sul bordo del silenzio: è nata una stella?