Biennale 3 | Bilancio finale

Un ponte per il futuro

Recensione
classica
Ecco, me la sono meritata. Nel precedente post ironizzavo sugli attacchi di bronchite fulminante durante i concerti e puntualmente il fato – o più verosimilmente una figlia in età da asilo, classica bomba virale – mi ha riservato un mega raffreddore/influenza, costringendomi non solo a perdere alcuni degli appuntamenti in programma, ma anche a uscire anzitempo dall’interessante versione integrale di Electronic Music for Piano (1964) di Cage, non volendo contribuire al soundscape con i miei starnuti.

Detto questo, do conto di quel che sono riuscito a vedere/sentire di quest’ultima parte della Biennale Musica, che comunque offre più di uno spunto alla riflessione. Molto interessante, nel pomeriggio del giovedì, è stato il concerto che abbinava le sei voci dei Neue Vocalsolisten di Stoccarda al clarinetto basso del fenomenale Gareth Davis. Tutti lavori nuovi per questa abbinata stimolante, aperta da un pezzo di Elliott Sharp (nome familiare agli appassionati di avant/jazz, un po’ meno a quelli di contemporanea, nonostante studi e pensiero del nostro siano serenamente a cavallo tra i due mondi) intriso di ironia. Interessante anche il lavoro di Johannes Schöllhorn, un po’ meno quelli di Oscar Bianchi e il pretenzioso mix di testi death-metal e Requiem tentato dall’austriaco Bernhard Gander.

Su tutti si è stagliato invece, magnifico e certamente miglior muova composizione di quelle che ho avuto modo di ascoltare, il pezzo di Yannis Kyriakides, forse non a caso artista che si muove anche in mondi non accademici (il bellissimo duo con Andy Moor, ad esempio). Il suo The World Feels Pressure su testi del pioniere della musica elettronica Dick Raaijmakers, utilizza solo tre delle sei voci a disposizione e su una sorta di semplice madrigale innesca un fantastico gioco in cui l’elettronica, il clarinetto basso e le voci si alterano a vicenda, anche con lo straniante utilizzo di auto-tune per deformare le altezze. Semplice, diretto, originale e bellissimo.

Del concerto del pianista Ciro Longobardi che aveva il suo culmine in Electronic Music for Piano, come dicevo poco sopra sono riuscito a ascoltare solo una parte: ottima l’esecuzione del Klavierstück IX di Stockhausen e interessante l’interazione con l’elettronica di Agostino di Scipio in 3 pezzi muti, non altrettanto si può dire del "collage" di omaggi pianistici (da Martha Argerich a Bill Evans) allestito da Vittorio Montalti, vecchio nella concezione e negli esiti.

Mi spiace molto, nell’ultima giornata, di non avere potuto assistere ai due concerti del pianista Andrew Zolinsky e alla performance tutta contrabbassi di Ludus Gravis, di cui mi hanno parlato molto bene. Ho però concentrato le energie residue per l’Ensemble di Anthony Braxton, dodici musicisti più lui, che in qualche modo completava con il versante afroamericano la ricognizione su alcuni maestri della musica degli Stati Uniti. Di certo tra i musicisti di ambito "improvvisazione/jazz", Braxton è tra quelli che con maggior titolo ha compiuto un percorso compositivo originale e articolato e il massiccio affresco sonoro che ha presentato agli spettatori del Teatro alle Tese è un’ulteriore tappa convincente di questo tragitto artistico.

Con la grande varietà timbrica a disposizione, utilizzando come al solito materiali di diverse Compositions del suo vasto repertorio, inanellando frammenti, frasi, riff, densi collettivi e stimolanti combinazioni strumentali, l’Ensemble di Braxton ha attraversato zone musicali stimolanti e dense di libertà all’interno del pensiero musicale, zone innervate dal suono del bravissimo trombettista Taylor Ho Bynum o dalla chitarra di Mary Halvorson, nonché dai guizzanti unisoni di tuba, fagotto e trombone.

Cosa dire dunque al termine di questa intensa settimana lunga di Biennale targata Ivan Fedele? Il primo anno di direzione artistica non è mai completamente significativo, ma alcune indicazioni potrebbero fornire a Fedele tracce interessanti da seguire, non ultima quella – su cui ormai ci ripetiamo da anni – di trovare il coraggio di cercare maggiormente al di fuori del mondo accademico, che mi sembra oggi fornire solo una sorta di altissimo artigianato autoreferenziale senza più il senso della contemporaneità. Non è forse un caso che i vari Niblock, Sharp, Kyriakides, ma anche i Lucier e i Feldman, siano oggi più seguiti e considerati da un pubblico totalmente estraneo alle sale da concerto e alle logiche della Nuova Musica (e assai più aperto alle sperimentazioni eterodosse e a considerare con eguale interesse le musiche di natura popular) che non dai canonici addetti ai lavori. Va sottolineato come la Biennale abbia lavorato in modo encomiabile su alcuni istituti scolastici, portando ai concerti molti ragazzi e ragazze. Fatta la tara sui ridacchianti, i dormienti o quelli che assistevano al concerto con le cuffiette nelle orecchie, certamente è un passo importante (forse anche utopico, dal momento che è probabile che una buona parte degli studenti che ha assistito ad un'esecuzione di Stockhausen non sappia chi sia Schubert o Mahler o Ellington, ma tant’è), ma spinge anche a un ripensamento degli stessi spazi per le musiche contemporanee.

Uscire dalla sala da concerto (ma non solo in chiave di "evento" come si è fatto anche negli scorsi anni), guardare a altre geografie e altri sistemi culturali senza i cronici pregiudizi, rimettere in gioco la relazione con un pubblico potenziale – specie quello più giovane – che generazionalmente, culturalmente, strutturalmente, spesso non può condividere quasi nessuno dei presupposti che solitamente uniscono lo sparuto pubblico della contemporanea. È una sfida che credo si possa affrontare, che valga più di ogni "estremo" affrontato in questi giorni. E che mi piace immaginare che i musicisti e le musiciste dell’Ensemble di Braxton, con la loro relativamente giovane età e la naturale attitudine a guardare oltre i confini, possano essere un ponte simbolico verso una rinnovata condivisione del fare musica. Significativamente contemporanea.

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