Non si era mai visto nulla di simile: l’artista che presenta un’opera nuova in pubblico, tramutando l’occasione in evento su scala planetaria. Ci voleva l’ego stratosferico del trentottenne produttore e rapper di Atlanta per congegnare una messinscena del genere. Organizzato per giovedì 11 febbraio al Madison Square Garden (la cui capienza di 18mila posti è stata letteralmente bruciata in prevendita) e inserito nell’agenda della Fashion Week di New York, l’happening abbinava l’anteprima del settimo album di Kanye West, The Life of Pablo (titolo definitivo dopo i provvisori So Help Me God, SWISH e Waves), alla passerella della collezione di moda Yeezy Season 3, da lui disegnata per conto di Adidas, con le coreografie firmate dall’artista concettuale genovese Vanessa Beecroft.
Alla diffusione globale hanno provveduto lo streaming sulla piattaforma Tidal (che le fonti ufficiali sostengono sia stato seguito da circa 20 milioni di utenti) e la proiezione cinematografica in diretta attraverso un network che coinvolgeva una ventina di paesi (due sale in Italia, a Milano e a Roma). Un volume di fuoco impressionante, insomma. Del resto, che limiti porre all’uomo che ha confessato di essere solleticato dall’idea di concorrere per la presidenza degli Stati Uniti d’America nel 2020? Eppure, per quanto anabolizzato dall’imponente dimensione mediatica, stiamo parlano comunque di un disco: “Uno dei più grandi di sempre”, aveva anticipato l’autore.
Ma le cose stanno davvero così? Qualcuno ne dubita. Alla vigilia dell’appuntamento nel palazzetto newyorkese, il “Village Voice” ha pubblicato online un pezzo intitolato con l’interrogativo: “Kanye è finito?”. Stando ai crudi dati commerciali, l’album precedente, Yeezus (2013), era stato il primo della serie a non raggiungere il milione di copie vendute: conseguenza della meritevole attitudine sperimentale che lo informava. In confronto, The Life of Pablo è meno avventuroso. Pablo chi, però? Alcuni affermano sia Picasso, al quale West si era paragonato nel corso di una lecture tenuta lo scorso anno di fronte a un gruppo di universitari a Oxford. Altri, maliziosamente, insinuano possa trattarsi viceversa del narcotrafficante Escobar…
Venendo al sodo, da quel che si è potuto ascoltare, il disco offre un repertorio di tipici canoni “Western”: l’insistito uso dell’auto-tune sulla voce (ad esempio in “Father Stretch My Hands”, articolato in due parti e dedicato al padre scomparso), qualche ritmo imperioso (su tutti, quello schiacciasassi di “Fade”), una visione dell’hip hop prossima al melò (in “FML”, complice il discepolo canadese The Weeknd, e nel conclusivo “Wolves”, illuminato da un fulgido cameo soul di Frank Ocean) e sconfinamenti in altri ambiti della black music (il gospel nell’iniziale “Ultra Light Beams”, che invita a “pregare per Parigi”). Tutto condito dalla consueta esuberanza verbale, che va dal “politicamente scorretto” (“Ho reso famosa quella puttana!”, indirizzato alla diva Taylor Swift nello sfrontato rap di “Famous”, dove fa capolino l’altra diva Rihanna) alla retorica autocelebrativa (“Ditemi un genio che non fosse pazzo”, sbotta – riferendosi a se stesso – in “Freestyle 4”). Questo è Kanye West, prendere o lasciare: il più ambizioso nigga mai esistito.