Era il 2021 quando usciva SPANO., il frutto della collaborazione tra Paolo Spaccamonti e Stefano “Fano” Roman; quattro anni dopo è la volta di SPANO. II: alcune cose sono cambiate e per capire quali e come abbiamo fatto una chiacchierata con “Fano”, l’uomo delle macchine, il beatmaker.
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«Eravamo già pronti a dare un seguito a SPANO. poco dopo la sua uscita, poi gli strascichi del Covid e a seguire i vari impegni di Paolo hanno allungato i tempi. Ti svelo che prima dell’impegno di Paolo con il tour di Lazarus avevamo il 70% del materiale pronto; quando poi ci siamo ritrovati non eravamo più convinti di tutto ciò che avevamo in mano e allora ci siamo messi sotto e in tempi relativamente brevi le otto canzoni del disco erano pronte. Diciamo che alla fine il lavoro vero e proprio è stato all’incirca di un anno, come hai capito senza lavorare in maniera esclusiva e continuativa».
Dunque otto brani, esattamente come il primo volume, ma se per il primo disco avevamo parlato di una raccolta di pillole, questo nuovo è senz’altro un’opera più unitaria, con un suo svolgimento logico.

«Risentendo oggi il primo disco mi sembra che stessimo provando a essere SPANO., era un disco meno omogeneo e più variegato, mentre questo nuovo è come se fosse un pezzo unico, come dice Paolo è una colata. Come dire? È una dose letale (risate). Poi sai, io ho queste sensazioni perché ho lavorato ai due dischi, ho contribuito a crearli: magari chi li ascolta la pensa diversamente. Facendo riferimento a quanto hai scritto a proposito dei titoli dei brani dell’album di Paolo Nel Torbido, questa volta l’assegnazione dei titoli è avvenuta ancor di più “a caso”, diciamo così (risate): devi sapere che entrambi siamo appassionati di commedie italiane trash degli anni Ottanta/inizio Novanta e quindi i titoli dei brani del primo disco avevano dei rimandi, magari comprensibili solo a noi, ai film di quel genere, mentre per questo nuovo io ho usato delle sigle per nominare i brani, magari usando le lettere iniziali del titolo del pezzo che ho usato per un campionamento. A Paolo questo sistema è piaciuto e l’abbiamo fatto diventare quello definitivo per attribuire i titoli. Ecco spiegati i vari “Derus”, “Heta”, “Leco” o “Morge”. Ovviamente fa eccezione il brano numero 3, “Bowie”, intitolato così perché ho campionato la batteria di una sua canzone: pur non essendo un suo fan, ne riconosco comunque l’oggettiva grandezza».
Un disco di alto artigianato, di campionamenti che sono il risultato di ascolti al limite dell’ossessione, alla ricerca del perfect beat, quello che può arrivare indifferentemente dall’amato James Brown, da Kool & the Gang o da qualche disco di prog rock.
«Paolo ha una sala dove prova, ci troviamo lì, io arrivo col pc portatile, la scheda audio e delle idee per quanto riguarda la batteria e mi confronto con lui: diciamo che lavoriamo per strati, faccio partire la batteria, lui improvvisa per una ventina di minuti e quando c’è qualcosa che reputo interessante lo fermo e faccio lo stesso lavoro che ho fatto con la batteria, vale a dire taglio e ricucio sulla parte di batteria in modo da avere una prima bozza. Lavoriamo cinque o sei ore, un paio di birrette, e poi a casa proseguo il lavoro sui bassi per renderli ancora più bassi. In genere sono io quello che si occupa della post-produzione: quando lavori con una band riesci a confrontarti con gli altri ma quando sei tu davanti a una macchina devi rimanere da solo, senza altri intorno. Al termine del lavoro mando i file a Paolo via whatsapp, lui li ascolta e quando è il caso suggerisce dei cambiamenti, così la volta dopo proviamo a farli mentre siamo insieme. Le batterie sono campionate o rifatte da campionamenti, non mi piace usare le librerie, trovo che quei suoni già pronti, perfetti, risultino un po’ freddi, almeno per i miei gusti. Preferisco lavorare in una maniera che può sembrare vecchia – e probabilmente lo è – ma è senz’altro artigianale e, non essendo io un musicista professionale, rappresenta il massimo grado del mio coinvolgimento nonché il mio divertimento personale».
«Visto che me lo chiedi i miei campionamenti di batteria pescano nella fascia che va dal 1968 al 1985: mi piace quel tipo di suono e ti confesso di essere un appassionato di prog rock. Pesco abbastanza da James Brown ma non mi rinchiudo all’interno di generi specifici: pensa che in uno dei brani del disco nuovo c’è la batteria di una canzone di Leonard Cohen. Molti rullanti arrivano da dischi reggae e, conoscendoti, so che questa informazione ti farà piacere».
Atmosfere notturne di una metropoli misteriosa dal cuore con battiti sincopati, rallentati dalla sapienza del dub o accelerati avendo come guida le lezioni di Madlib e J Dilla, otto schegge di uno specchio rotto ma ancora in qualche maniera collegate tra loro, in grado di restituirci immagini, se pur deformate.
«Faccio questo per me e per chi la pensa come me. Metà del tempo non so perché lo faccia. Lo farei anche se nessuno ascoltasse. Sono bloccato. È la mia dannazione». (Madlib)
Ma alla fine, dovendo fare una scelta ristretta ma significativa, quali sono le canzoni che bisogna assolutamente ascoltare per entrare e capire cos’è SPANO. II?
«Allora ti dico tre titoli: “Both”, il brano d’apertura, quello che funziona da biglietto da visita di tutto l’album, “Sirius”, quello che per te è il brano migliore e che piace molto anche a me, e per finire “Leco”, un brano a cui sono molto affezionato perché in un minuto e trentacinque secondi mette in mostra il lato hardcore di entrambi. Come facemmo in occasione della pubblicazione del primo disco, ci piacerebbe fare una presentazione ufficiale ma vorremmo evitare che io stia dietro una macchina a pigiare dei tasti e Paolo suoni la chitarra: vorremmo fare qualcosa di diverso, ne stiamo parlando e al momento non possiamo fare annunci di nessun tipo. Lo stesso discorso vale per eventuali concerti che potrebbero venir fuori nei prossimi mesi. Staremo a vedere, qualcosa succederà».
All’epoca del primo disco, un po’ ingenuamente, Paolo e Stefano avevano pensato di coinvolgere nel progetto alcuni rapper internazionali, proponendo i loro brani come basi, per poi rapidamente fare marcia indietro. Prima ancora di ascoltarli, questi volevano vedere i soldi, i soldi ovviamente non c’erano e quindi dovettero lavorare sulle canzoni, originariamente più lunghe perché avrebbero dovuto fare da supporto alle voci, riarrangiarle e farle diventare come delle pillole: ecco, quel disco, come già scritto in precedenza, era una raccolta di pillole. Progetto archiviato definitivamente o, magari in forma diversa, ancora attuale?
«No, la nostra musica non può fare da base ai rapper perché è troppo strutturata, troppo ricca: il rapper classico ha bisogno di meno roba possibile per mettere in evidenza il suo flow, a meno che non sia Billy Woods, uno che potrebbe rappare su qualsiasi cosa. Al momento però lo vedo abbastanza al di là della nostra portata (risate).
Il disco esce in tiratura limitata, soltanto 70 CD, ogni copia realizzata a mano e numerata (niente paura, è disponibile anche la versione digitale): quando ho chiesto il perché di questa scelta, mi è stato risposto che è una storia lunga che forse una sera mi sarà raccontata di fronte a una bottiglia di vino. Stefano è un amante della salsa anni Sessanta e Settanta, dunque mi fido che prima o poi quella sera arriverà.