«Avevo quattordici anni nel 1988 e la cultura anglosassone pesava sul mio immaginario con il suo flusso di suoni asettici e di emozioni artificiali, le musiche organizzate in mode e generi destinati a finire rapidamente fuori moda. Poi una notte alla radio ho sentito una musica che sembrava venire dal profondo della terra e dell'animo umano».
Così racconta Gwenaël Breës, voce narrante ed ideatore del progetto, nell'incipit del suo In a Silent Way, un film allusivo che fruga nelle pieghe di un mondo remoto e familiare, privato, universale, alla ricerca del suono di una mano sola, come da insegnamento Zen, di fantasmi domestici e cosmici o dei segreti indicibili custoditi nel silenzio da cui veniamo e al quale tutti torneremo.
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Il regista belga, in questo tributo obliquo e sentito, cerca di restituire il senso primo e ultimo di un'epifania: la stessa che tutti abbiamo provato all'ascolto degli ultimi due, magnifici dischi dei Talk Talk. Spirit of Eden esce nel 1988, con l'iconica copertina di James Marsh a raffigurare un albero al quale sono appesi come frutti conchiglie ed al centro campeggia un pennuto acquatico. “Bisogna essere leggeri come un uccello, non come una piuma”, scriveva Paul Valéry, e questa levità che cerca di vincere la gravità e le sue ragioni, questa tensione alla sottrazione, alla sparizione, sono il sintomo di una lotta, di ferite che non si rimarginano, allagano il cuore e non si possono dire; forse anche per questo Mark Hollis, morto esattamente due anni fa, rifiuta con gentile fermezza l'invito del regista ad essere intervistato o a concedere l'uso delle musiche della band per il film.
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Paul Webb, il bassista, che oggi conosciamo come Rustin Man, e Lee Harris, il batterista (i due insieme dettero vita alla cometa O'Rang, autori di due lavori abbacinanti, Herd of Instinct e Fields & Waves), rifiutano ugualmente di dire la loro o addirittura non rispondono: lo stesso avviene per Tim Friese-Gren, il produttore che ha scritto l'album con Hollis, per la manager Keith Aspden, per Sam Brenner, il primo tastierista: è come se il mutismo del cantante si fosse rivelato contagioso e il proposito del documentario, illuminare musicisti che hanno fatto di tutto per tornare nell'ombra, si dimostrasse inesorabilmente fallimentare.
Ma è proprio della deriva, della perdita, del silenzio al quale apparteniamo che cantava Hollis; Breës, da fan devoto, ha capito a un livello epidermico la natura e la filosofia di questi suoni. Non si scoraggia dinanzi all'impossibilità di usare quelle musiche in un film ad esse dedicato e ne approfitta anzi per percorrere altre strade. Esplora geografie (Buckinghamshire, Essex, Kent, Norkfok, Sussex, Sussex), luoghi, come i Wessex Studios ad Islington, Londra, oggi divenuti appartamenti, dove con una lunga, meticolosa gestazione quel capolavoro celeste (ed insieme perfetto suicido commerciale per una pop band di grande successo) vide la luce, in un'oscurità raccolta e religiosa.
Perché, come dice Hollis in una straniante partecipazione a Superflash con Mike Bongiorno, celato dietro i suoi proverbiali occhiali da sole tondi: «La musica è tutto, come John Coltrane, A Love Supreme».
La stessa idea, lo stesso amore supremo animano le poche righe di risposta che il cantante manda al regista motivando il suo niet: «Preferisco che questi album continuino a parlare solo attraverso sé stessi e che esistano da soli, senza un film che li riguardi o li coinvolga. So che sei animato dalle migliori intenzioni ma confido che saprai comprendere il mio punto di vista a riguardo».
I passeggeri da Calais a Dover non conoscono i Talk Talk, un ex pugile con tatuaggio e didascalico pancione canta Elvis, una donna seduta accanto a lui che li scambia per i Toto, un armonicista blues segnato dalla vita, il cantante di Eddie & The Hot Rods, il tastierista Ian Curnow, licenziato perché non serviva più, il contrabbassista Simon Edwards, che partecipa alle sessions, dopo che sono stati provinati quattordici(!) suoi colleghi, grazie al fatto che spende il primo giorno solo ad ascoltare quanto gli sta prendendo vita intorno. Una volta chiesto a Hollis e Friese-Green, gli artefici di Spirit of Eden, cosa e come vogliono che lui suoni, gli viene risposto in modo semplice, laconico: «Just play».
Attraverso le parole di altri si costruisce questo delicato haiku, dedicato ad un eremita nelle campagne inglese che, in realtà, mentre il regista è sulle sue orme, viaggia in moto in Italia, attraversa il deserto di Atacama, i sentieri del Wyoming. Un uomo che sfugge non per vezzo o per narcisismo; semmai perché non vuole che nulla si frapponga fra gli ascoltatori e la sacralità della musica, e non ha più nulla da dire perché ha già lambito il silenzio definitivo, ne è magneticamente attratto.
L'ultimo, incredibile disco in solo del 1998, che avrebbe dovuto intitolarsi Mountains On The Moon e uscire ancora a nome Talk Talk, ne è la prova senza appello. Cartina di tornasole di una vita ai confini delle brume dell'assenza, come queste canzoni che non sono canzoni ma stanze senza pareti affacciate su precipizi ed oceani; allo stesso modo, provando ad usare lo stesso tatto che si ha quando si tocca un albero, In A Silent Way restituisce parole inedite a una bellezza che parole irripetibili ha avuto, per poi sparire nel silenzio, in una dissolvenza voluta o forse inevitabile.
Quasi a voler dare ragione a Morton Feldman, che, parlando del decadimento (il fenomeno per cui, dopo l'attacco, il suono tende verso il silenzio) diceva: «Il decadimento, questo paesaggio sonoro che parte ed esprime il luogo dove il suono esiste nel nostro ascolto, nel momento in cui ci lascia piuttosto che quando viene verso di noi».
Tutto è già accaduto, il mondo raccoglie i suoi cocci dopo il diluvio ed è popolato di ombre, animali; quello che ascoltiamo è un infinito, commosso requiem, una preghiera di rinascita. In Spirit of Eden, racconta Phil Brown, uno dei più grandi tecnici del suono della popular music, il novanta per cento di ciò che venne registrato fu eliminato.
Questo procedimento di rarefazione tocca vette ulteriori nel successivo Laughing Stock; come un fade out lungo una vita, fino a confondersi con gli elementi di un omaggio toccante e che ci restituisce il senso di quell'insondabile mistero, quella vicinanza così intima e dolorosa: alberi, pecore, arnesi arrugginiti, barbe di artigiani, voci rauche, arpe ancestrali, bambini che giocano sulla spiaggia di Brighton, il vento che spazza i pensieri, le collezioni di dischi che ci hanno cambiato la vita, il tempo che scava come acqua inesorabile negli spigoli, nei quaderni. Mark Hollis, nel suo essere schivo e a disagio con i meccanismi del music business, era, è e sarà la dimostrazione per sempre vivente che esiste ancora un amore diverso nel fare le cose e nell'ascoltarle, e che la grande poesia, qualsiasi forma prenda, si ciba di questi dettagli e fugge dai proclami, dalle urla, dalle dichiarazioni vanamente assertive.
Ricorda che gli uomini e le donne sono esseri
infinitamente estatici, infinitamente sofferenti.
Solleva i ciechi, spalanca le tue finestre chiuse,
solleva il tetto,
svita le serrature delle porte, ma non buttare via
i cardini.(Lawrence Ferlinghetti, 1919-2021)