Il ritorno della sevdah

Il nuovo disco di Damir Imamović esce per Glitterbeat, e reinventa la sevdah bosniaca

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Damir Imamović’s Sevdah Takh
Dvojka
Glitterbeat


Le logiche secondo cui una musica raggiunge successo e diffusione sui palchi internazionali della world music sono spesso misteriose. Se dovessimo scommettere su un genere che nei prossimi anni potrebbe finalmente riemergere sulla scena internazionale, lo faremmo senz'altro sulla sevdah bosniaca.

La sevdah o sevdalinka – un tipo di canzone radicata soprattutto a Sarajevo e Mostar – ha una storia affine a altri generi popular, compresa il tono generalmente nostalgico delle composizioni (il termina deriva dal turco e significa “melancolia”: ragion per cui si è parlato spesso, per lo più impropriamente, di “blues bosniaco”).

Alla fine degli anni Novanta / primi anni Zero – nel contesto di una generale esposizione mediatica della musica dell’ex-Jugoslavia seguita alla fine della guerra – il genere ottenne una prima diffusione, grazie soprattutto all’azione di band come Mostar Sevdah Reunion. Tuttavia, la sevdah finì con il rimanere relegata nel grande calderone del turbo-folk, schiacciata per giunta dalla grande visibilità delle brass band. Se c'è un'immagine acustica "balcanica" acquisita nel senso comune, è sicuramente quella delle colonne sonore caciarone di Emir Kusturica, e della band di Goran Bregović.

Senza voler banalizzare troppo vicende culturali complesse, è senz’altro sintomo di uno spostamento di sound e di target la fresca uscita per l’etichetta Glitterbeat – fra le più interessanti soprattutto in ambito di suoni “desertici” (per cui pubblicano nomi come Aziza Brahim, Spain, Hugo Race…) – del nuovo disco di Damir Imamović, classe 1978, nipote d’arte del maestro del genere Zaim Imamović e fra i maggiori interpreti contemporanei del genere.



La produzione del disco colloca il lavoro di Imamović e del suo gruppo, Sevdah Takh, in un contesto di musica acustica raffinata e intimista, ben lontano da ogni cliché balcanico. Dvojka suona meravigliosamente, molto più vicino a un disco – appunto – degli Spain, o di Beirut, che a una qualunque delle band dell'area ex-jugoslava a cui possiamo essere abituati. Il brano di apertura – un manifesto sin dal titolo, “Sarajevo” – setta le coordinate con asciutti suoni di darabuka, basso elettrico, plettri e violino. La sevdah, in questa veste asciutta e contemporanea, rivela ancor di più le sue parentele con la musica greca della “nuova onda” (a cui molte scelte di produzione sembrano anche rimandare) e con l’oriente turco e “mediterraneo”... Un disco splendido, un passaggio – probabilmente – importante nella storia della sevdah... Almeno, da una prospettiva "occidentale".

In apertura: Damir Imamović (foto Amer Kapetanovic)

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