Riproponiamo questa intervista a Sidi Touré raccolta da Marcello Lorrai (qui il suo blog di approfondimento sul Mali) in occasione dell'uscita dell'ultimo album del musicista maliano, alla fine della scorsa estate.
«Una canzone di questo album mi è particolarmente cara in questo momento: "Aïy Faadji", ovvero "Ho nostalgia". L'ho scritta quando avevo nostalgia di Gao, ma adesso, a vedere quello che sta succedendo, prende un senso ancora più forte, come più forte è il mio struggimento. Molta gente è scappata, verso il Niger, il Burkina, l'Algeria, o per venire qui a Bamako, lasciando le case vuote: ci penso così tanto... Ma la ragione trionferà, il Mali riuscirà a mettere tutti i suoi figli intorno ad un tavolo, e tornerà la pace».
Pubblicato come il precedente Sahel Folk con la rispettosa Thrill Jockey, l'etichetta dei Tortoise e dell'avanguardia jazz di Chicago, Koïma è il nuovo album del cantante e chitarrista Sidi Touré: con una fresca, vivace combinazione di voce, chitarre acustiche, violino tradizionale, calebasse e canto femminile di accompagnamento, la musica ruota intorno al patrimonio musicale dell'etnia songhaï ma è aperta alla modernità - per esempio con qualche punta francamente blues - però senza particolare captatio benevolentiae e smancerie rivolte al consumo internazionale. Sidi Touré vive nella capitale Bamako, ma è originario di Gao, una delle principali città del nord del Mali. All'inizio di aprile Gao, così come la più famosa Timbuktu, è stata occupata dai combattenti tuareg e dalle milizie islamiste, protagonisti dall'inizio dell'anno della guerriglia nel nord del paese contro lo stato centrale; alla fine di giugno, le forze islamiste hanno dato il benservito ai tuareg, che sono stati costretti ad abbandonare le città del nord.
La sua carriera è cominciata con Songhaï Star, l'orchestra regionale di Gao...
«Ibrahim Soumaré, uno dei membri della formazione, era istitutore nella mia scuola, mi ha visto cantare e ha pensato che potevo essere un buon acquisto per Songhaï Star, e gliene sono ancora grato. Ero uno dei più giovani del gruppo, e mi coccolavano molto. Qualche anno dopo sono diventato cantante solista. Abbiamo girato molto all'estero, Algeria, Niger, Burkina, e nell'84 e '86 abbiamo vinto la Biennale di Bamako. La strumentazione era moderna: chitarra, basso, batteria, tastiere, sezione fiati, a cui spesso si aggiungevano violino tradizionale e chitarra tradizionale; oltre a me come solista c'erano due cantanti accompagnatori. La maggior parte di questi musicisti era uscita dalla "Scuola di Dio", come amo dire: non avevamo imparato musica e solfeggio prima di entrare nei Songhaï Star, è solo più tardi che abbiamo studiato».
Eravate professionisti?
«Se per professionista si intende qualcuno che guadagna a sufficienza, allora no: c'era anche un sacco di gente che ci criticava appunto perchè non facevamo soldi. Però non c'era mai un giorno che non si provasse, anche quando ci trovavamo semplicemente intorno ad un tè: c'erano le chitarre, si suonava, in pratica si finiva per lavorare anche la domenica. Potevo essere a casa, e Douma Albarka, il chitarrista, arrivava con l'idea di un pezzo, si creava l'arrangiamento e la sera lo si suonava con l'orchestra. O ero io ad avere l'ispirazione, e allora andavo da Douma...»
Quando ha ascoltato per la prima volta del pop/rock europeo o americano?
«Ero molto giovane, forse nel '72-'73, con degli amici un po' più grandi. Ma è stato verso l'83-'84 che ho cominciato ad ascoltare di più: il mio fratello maggiore aveva delle cassette di jazz e rock, e poi durante le vacanze c'erano gli studenti che tornavano a Gao, e si ascoltavano i Dire Straits, gli Who, i Pink Floyd, i Beatles, gli AC/DC, i Police... C'era sempre il pezzo di moda che si ascoltava in continuazione. Secondo me se sei un musicista devi ascoltare chi è più grande di te e cercare di capire come ci è arrivato».
E da giovane che cosa le piaceva di più della musica maliana e di quella africana?
«Ho ascoltato soprattutto la musica di Gao, la mia fonte di ispirazione, una musica che in Mali non è molto conosciuta: ma è un folklore vastissimo, che continua a darmi molto. Più avanti ho ascoltato parecchio Salif Keita, Mory Kante e ovviamente Ali Farka Touré. Tra i musicisti di oggi mi piace molto quello che fa il mio amico Bassekou Kouyaté. E poi ho ascoltato la juju music di King Sunny Ade, l'afrobeat di Fela Kuti, la musica della Guinea, la musica del Benin che tende verso il vaudou e quindi verso l'holley [musica songhaï che induce alla transe, suonata con violino tradizionale e diverse calebasse come percussione], del Niger, dell'Algeria o del Sudan. Sono musiche che hanno delle affinità con il folclore di Gao, in cui si trovano le stesse melodie. Queste musiche arrivavano a Gao perchè molti di questi paesi sono vicini: il Niger è a 400 chilometri, e il Niger non è lontano dal Benin. Spesso c'erano dei guineani che passavano da Gao per andare in Francia, e suonavamo assieme».
Il titolo dell'album?
«Koïma è la duna di Gao, una grande duna che si bagna nel Niger. "Koï" significa "vieni", e "ma" "sentire": vieni a sentire che cosa? I rumori degli stregoni. Koïma è un luogo molto misterioso, mistico: un tempo tutti gli stregoni del mondo la notte si riunivano lì e poi all'alba tornavano a casa loro».
Il tipo di musica che si ascolta in Sahel Folk e Koïma interessa ancora i più giovani?
«I giovani sono piuttosto per il rap, l'hip hop, lo R'n'B, ma penso che alla lunga le cose cambieranno. Se soltanto conoscessero l'origine del rap... Bisogna ascoltare i peul della regione di Macina, il loro modo di suonare la chitarra e parlarci sopra!».
Quale è la sua normale attività musicale?
«Io suono sempre, non posso fare a meno di suonare la chitarra anche quando prendo il tè con gli amici. Senza musica, la vita non esiste, senza musica il mondo va a ramengo. Se sono felice, compongo, se sono infelice, compongo: è così che adesso ho fatto una canzone sulla guerra nel nord».
Ha famiglia a Gao?
«Mio fratello è lì: dice che non lascerà la città, che si muore una volta sola, e che non si sposterà di un passo. Vedere il nord diviso dal resto del paese, gli stupri, la distruzione a Gao di quello che era stato costruito dopo l'indipendenza, è una cosa che mi uccide. È per questo che nella canzone ho cercato di dire che cos'è la guerra».
(Articolo pubblicato sul "giornale della musica" 295, settembre 2012)
«Una canzone di questo album mi è particolarmente cara in questo momento: "Aïy Faadji", ovvero "Ho nostalgia". L'ho scritta quando avevo nostalgia di Gao, ma adesso, a vedere quello che sta succedendo, prende un senso ancora più forte, come più forte è il mio struggimento. Molta gente è scappata, verso il Niger, il Burkina, l'Algeria, o per venire qui a Bamako, lasciando le case vuote: ci penso così tanto... Ma la ragione trionferà, il Mali riuscirà a mettere tutti i suoi figli intorno ad un tavolo, e tornerà la pace».
Pubblicato come il precedente Sahel Folk con la rispettosa Thrill Jockey, l'etichetta dei Tortoise e dell'avanguardia jazz di Chicago, Koïma è il nuovo album del cantante e chitarrista Sidi Touré: con una fresca, vivace combinazione di voce, chitarre acustiche, violino tradizionale, calebasse e canto femminile di accompagnamento, la musica ruota intorno al patrimonio musicale dell'etnia songhaï ma è aperta alla modernità - per esempio con qualche punta francamente blues - però senza particolare captatio benevolentiae e smancerie rivolte al consumo internazionale. Sidi Touré vive nella capitale Bamako, ma è originario di Gao, una delle principali città del nord del Mali. All'inizio di aprile Gao, così come la più famosa Timbuktu, è stata occupata dai combattenti tuareg e dalle milizie islamiste, protagonisti dall'inizio dell'anno della guerriglia nel nord del paese contro lo stato centrale; alla fine di giugno, le forze islamiste hanno dato il benservito ai tuareg, che sono stati costretti ad abbandonare le città del nord.
La sua carriera è cominciata con Songhaï Star, l'orchestra regionale di Gao...
«Ibrahim Soumaré, uno dei membri della formazione, era istitutore nella mia scuola, mi ha visto cantare e ha pensato che potevo essere un buon acquisto per Songhaï Star, e gliene sono ancora grato. Ero uno dei più giovani del gruppo, e mi coccolavano molto. Qualche anno dopo sono diventato cantante solista. Abbiamo girato molto all'estero, Algeria, Niger, Burkina, e nell'84 e '86 abbiamo vinto la Biennale di Bamako. La strumentazione era moderna: chitarra, basso, batteria, tastiere, sezione fiati, a cui spesso si aggiungevano violino tradizionale e chitarra tradizionale; oltre a me come solista c'erano due cantanti accompagnatori. La maggior parte di questi musicisti era uscita dalla "Scuola di Dio", come amo dire: non avevamo imparato musica e solfeggio prima di entrare nei Songhaï Star, è solo più tardi che abbiamo studiato».
Eravate professionisti?
«Se per professionista si intende qualcuno che guadagna a sufficienza, allora no: c'era anche un sacco di gente che ci criticava appunto perchè non facevamo soldi. Però non c'era mai un giorno che non si provasse, anche quando ci trovavamo semplicemente intorno ad un tè: c'erano le chitarre, si suonava, in pratica si finiva per lavorare anche la domenica. Potevo essere a casa, e Douma Albarka, il chitarrista, arrivava con l'idea di un pezzo, si creava l'arrangiamento e la sera lo si suonava con l'orchestra. O ero io ad avere l'ispirazione, e allora andavo da Douma...»
Quando ha ascoltato per la prima volta del pop/rock europeo o americano?
«Ero molto giovane, forse nel '72-'73, con degli amici un po' più grandi. Ma è stato verso l'83-'84 che ho cominciato ad ascoltare di più: il mio fratello maggiore aveva delle cassette di jazz e rock, e poi durante le vacanze c'erano gli studenti che tornavano a Gao, e si ascoltavano i Dire Straits, gli Who, i Pink Floyd, i Beatles, gli AC/DC, i Police... C'era sempre il pezzo di moda che si ascoltava in continuazione. Secondo me se sei un musicista devi ascoltare chi è più grande di te e cercare di capire come ci è arrivato».
E da giovane che cosa le piaceva di più della musica maliana e di quella africana?
«Ho ascoltato soprattutto la musica di Gao, la mia fonte di ispirazione, una musica che in Mali non è molto conosciuta: ma è un folklore vastissimo, che continua a darmi molto. Più avanti ho ascoltato parecchio Salif Keita, Mory Kante e ovviamente Ali Farka Touré. Tra i musicisti di oggi mi piace molto quello che fa il mio amico Bassekou Kouyaté. E poi ho ascoltato la juju music di King Sunny Ade, l'afrobeat di Fela Kuti, la musica della Guinea, la musica del Benin che tende verso il vaudou e quindi verso l'holley [musica songhaï che induce alla transe, suonata con violino tradizionale e diverse calebasse come percussione], del Niger, dell'Algeria o del Sudan. Sono musiche che hanno delle affinità con il folclore di Gao, in cui si trovano le stesse melodie. Queste musiche arrivavano a Gao perchè molti di questi paesi sono vicini: il Niger è a 400 chilometri, e il Niger non è lontano dal Benin. Spesso c'erano dei guineani che passavano da Gao per andare in Francia, e suonavamo assieme».
Il titolo dell'album?
«Koïma è la duna di Gao, una grande duna che si bagna nel Niger. "Koï" significa "vieni", e "ma" "sentire": vieni a sentire che cosa? I rumori degli stregoni. Koïma è un luogo molto misterioso, mistico: un tempo tutti gli stregoni del mondo la notte si riunivano lì e poi all'alba tornavano a casa loro».
Il tipo di musica che si ascolta in Sahel Folk e Koïma interessa ancora i più giovani?
«I giovani sono piuttosto per il rap, l'hip hop, lo R'n'B, ma penso che alla lunga le cose cambieranno. Se soltanto conoscessero l'origine del rap... Bisogna ascoltare i peul della regione di Macina, il loro modo di suonare la chitarra e parlarci sopra!».
Quale è la sua normale attività musicale?
«Io suono sempre, non posso fare a meno di suonare la chitarra anche quando prendo il tè con gli amici. Senza musica, la vita non esiste, senza musica il mondo va a ramengo. Se sono felice, compongo, se sono infelice, compongo: è così che adesso ho fatto una canzone sulla guerra nel nord».
Ha famiglia a Gao?
«Mio fratello è lì: dice che non lascerà la città, che si muore una volta sola, e che non si sposterà di un passo. Vedere il nord diviso dal resto del paese, gli stupri, la distruzione a Gao di quello che era stato costruito dopo l'indipendenza, è una cosa che mi uccide. È per questo che nella canzone ho cercato di dire che cos'è la guerra».
(Articolo pubblicato sul "giornale della musica" 295, settembre 2012)