Il 26 gennaio inaugura la nuova edizione di SEEYOUSOUND, il festival torinese di cinema musicale. Fra le novità che si vedranno al festival – per la prima volta in Italia – c'è American Valhalla, il docufilm di Josh Homme e Andreas Neumann sulla realizzazione del disco Post Pop Depression (probabilmente quello finale) di Iggy Pop.
American Valhalla sarà al Cinema Massimo di Torino per SEEYOUSOUND, sabato 27 gennaio alle 22.30 (Sala 2) e giovedì 1° febbraio alle 22 (Sale 3). Abbiamo visto in anteprima il film e ve lo raccontiamo.
(Avvertenza: l’articolo contiene alcune parolacce, proprio come il film - dove in realtà ce ne sono ben di più).
Fermo immagine. Primo piano a tutto schermo del volto di Iggy Pop. Il volto di un uomo di 69 anni, non filtrato, con tutte le rughe (e che rughe!) in bella evidenza, «Non ho nient’altro che il mio nome». Fine. Boom! Un’uscita di scena da brividi. Inutile dire che sono colto dalla depressione post Pop.
«Il Rancho de la Luna è un paio di case circondate da molto nulla; se esci nel deserto, senti solo il vento e lo scricchiolio della sabbia sotto i tuoi piedi», dice Josh Homme, leader dei Queens of Stone Age, contattato da Iggy per la produzione del progetto. Tre mesi prima aveva ricevuto un pacchetto tramite FedEx, speditogli da Miami da un certo James Newell Osterberg Jr: «Cazzo, Iggy Pop!». All’interno fogli e fogli di ricordi ordinati cronologicamente, con un’enfasi particolare sul periodo berlinese, quello con David Bowie, appunti sparsi, idee abbozzate per possibili canzoni. Il compito non è semplice: leggere tutto e, basandosi sugli spunti solo accennati, lavorare sulle musiche per un possibile disco, senza rivelare niente a nessuno.
Passano tre mesi e, non avendo ricevuto risposta, Iggy si rompe i coglioni e parte per Los Angeles per parlare con Josh. Per sua fortuna quest’ultimo non è stato con le mani in mano, ha lavorato sul materiale ricevuto, ha elaborato qualche idea musicale. Il grosso è ancora da fare ma si può cominciare: si imbarcano nel progetto Dean Fertita e Matt Helders, batterista degli Arctic Monkeys, e si parte per Joshua Tree, destinazione Rancho de la Luna. Qui li aspetta Patrick “Hutch” Hutchinson, sound engineer e anfitrione del Rancho e comincia un’avventura sì artistica ma soprattutto umana: i quattro sono nell’High Desert, circondati dal nulla, mangiano insieme, dormono insieme, si confrontano continuamente.
L’idea di partenza è quella di comporre una canzone: se viene bene, si procede, altrimenti Josh prende i nastri e va a seppellirli nel deserto. Per nostra fortuna il primo pezzo è “Break into Your Heart” (lo stesso che avrà il compito di aprire l’album) e quindi si può andare avanti. L’idea di realizzare un rock-doc deve essere venuta in corso d’opera e sembra aver subito qualche cambiamento rispetto a quella originaria: diversamente non si spiegherebbe il ruolo di Anthony Bourdain, il viaggiatore-gastronomo di No Reservations, presente nella prima parte con le sue domande ai musicisti ma totalmente assente nella seconda. Facciamo in tempo a scoprire alcune cose di Iggy: «non sono una grande persona, sono egoista», «spesso mi sento schiacciato», «non sono fatto per la mediocrità» (a proposito del tentativo della sua casa discografica di fargli cantare silly love songs, per citare McCartney, a metà degli anni Ottanta).
Il disco viene portato a termine in uno studio di Burbank: l’avventura è finita e tutti si sentono svuotati, increduli di dover tornare a occuparsi di altri progetti, c’è ancora la voglia di stare insieme e allora nasce l’idea di portare il disco in tour, nonostante il desiderio iniziale di Iggy di starsene un po’ tranquillo e non dover affrontare questa sfacchinata.
Prima però bisogna fare un’esibizione privata per un critico del New York Times: è la sera del 9 gennaio, per essere a Los Angeles in tempo Iggy deve prendere il volo da Miami delle 4 del mattino. Sta dormendo quando la moglie lo sveglia: «Iggy, David Bowie è morto». Merda, David, l’amico di tutta una vita: è un colpo durissimo ma Iggy decide di partire ugualmente. Nel frattempo la notizia si è diffusa e, al suo arrivo nello studio, gli altri non hanno quasi il coraggio di parlargli. Josh fa partire le note di vibrafono che introducono la canzone “American Valhalla” e Iggy… Beh, Iggy spacca il culo.
Il tour può partire e il documentario ci porta in posti chiave dell’esistenza di Iggy: Detroit, Berlino, Londra (alla Royal Albert Hall), Parigi (al Rex). Ovunque è un trionfo, i teatri sono sold out, Iggy non si risparmia, è sempre a torso nudo e gli stage diving sono una costante delle esibizioni.
Se devo fare una critica al film, mi ha un po’ disturbato l’onnipresenza di Josh Homme: insomma, hai un’opportunità di quelle che capitano una volta sola nella vita, a undici anni hai imparato gli accordi di “Repo Man”, non limitare l’impatto, dai più spazio a Iggy invece di farti riprendere mentre leggi il diario tenuto durante le registrazioni al Rancho o mentre cammini nel deserto dicendo ovvietà del tipo «il tempo non è tuo amico».
Detto questo, il film mi è piaciuto più di Gimme Danger, il film di Jim Jarmush sugli Stooges uscito nel 2016 (ne abbiamo parlato qui), e ho apprezzato l’idea di alternare il colore con il bianco e nero.
Al termine della visione mi è venuta in mente una frase di un racconto dello scrittore Luis Sepulveda: lui è in aeroporto insieme ad altri giovani, condannati come lui all’esilio dalla dittatura cilena, è ammanettato e circondato da militari, mentre suo padre lo guarda attraverso la vetrata dell’aeroporto e lo saluta a pugno chiuso, fregandosene altamente delle possibili conseguenze. Sepulveda gli sorride e pensa «non abbassare il pugno, vecchio, non abbassarlo mai». Alla stessa maniera «non metterti quella cazzo di maglietta, vecchio Iggy, non mettertela mai».
«Fuck, fuck, fuck, fuck, fuck, fuck» (cit. Iggy Pop alla Royal Albert Hall)
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