Jenny Hval
Blood Bitch
Sacred Bones
L’argomento rimane scabroso: lo ricordava mesi fa un servizio da prima pagina di “Internazionale”. Porlo al centro di un’opera discografica è dunque un atto che richiede audacia. Così ha fatto Jenny Hval, trentaseienne cantante e compositrice in bilico fra l’avanguardia e il pop sperimentale, un po’ Laurie Anderson e un po’ Björk. Non è esattamente come dice lei al telefono, rispondendo a una collaboratrice che le domandava quale fosse il tema conduttore dell’album (conversazione posta in apertura del brano “The Great Undressing”): «Sono i vampiri».
Sì, d’accordo, uno degli episodi più avvincenti della raccolta è il diafano madrigale elettronico intitolato appunto “Female Vampire”. Si tratta però di un riflesso simbolico del vero fulcro narrativo del lavoro: le mestruazioni. Nelle parole dell’interessata: «Il sangue più puro e potente che ci sia, ma anche il più triviale e terrificante».
“Non spaventarti, è solo sangue”, canta in “Period Piece”: altro brillante esempio del suo approccio avant-pop alla materia musicale. Esibendo acume e grazia, l’artista norvegese usa la forza metaforica del soggetto per esplorare la sensibilità femminile e la relazione con il sesso opposto, avendo per sua stessa ammissione quale fonte d’ispirazione – da quest’ultimo punto di vista – il romanzo epistolare I Love Dick della statunitense Chris Kraus (mai tradotto in Italia). In alcuni momenti l’effetto è ammaliante, fra slanci emotivi (“Conceptual Romance”) e languori introspettivi (“Secret Touch”), e in altri inquietante, come accade durante “The Plague”, mosaico sonoro a base di tabla digitalizzate e urla da possessione. Ingegnoso nella forma e temerario nel contenuto, Blood Bitch è un disco destinato a non passare inosservato: prova ne sia la copertina appena dedicata all’autrice dal periodico “The Wire”, che la colloca – citando Nietzsche – «al di là del bene e del male». Alberto Campo