Vinicio Capossela
Canzoni della Cupa
La Cùpa / Warner
Chi segue Vinicio Capossela con attenzione sa che Canzoni della Cupa è un disco annunciato da molto tempo. Dalla gestazione lunghissima (le prime registrazioni risalgono al 2003), non è un lavoro veramente nuovo, nel senso che il suo processo di lavorazione si è spesso intersecato con altri progetti, influenzandoli (o facendosi influenzare) non poco – per questo ascoltandolo si ha l’impressione di sentire altre canzoni già edite, provenienti soprattutto da Marinai profeti e balene e Ovunque proteggi – senza dimenticare il lavoro preparatorio di un disco come Primo ballo, con La Banda della Posta, registrato nel 2012.
L’album, doppio, si divide in due parti: Polvere, che svela una attitude da folk revival anni Sessanta senza la pretesa di alcuna correttezza filologica (Capossela lo scrive nel booklet come premessa ai testi e va ripetendolo nelle interviste, a scanso di equivoci); e Ombra, in cui emergono di più l’autore e l’interprete.
Come in Rebetiko Gymnastas, Vinicio si appropria di un determinato repertorio tradizionale (qui nel caso specifico, canti tradizionali dell’Irpinia) e lo riplasma secondo il suo sentire di musicista e autore, restituendo una creatura viva, le cui radici sono piantate nella terra d’origine della famiglia Capossela – Calitri è infatti il paese d’origine di Vinicio da parte paterna – ma le fronde si agitano al soffio di venti di frontiera provenienti da Ovest (o meglio dal West) grazie ai Calexico, Howe Gelb e Flaco Jiménez, da Sud-Ovest (Los Lobos) e da Est. Concettualmente potrà sembrare un’idea strampalata, ma di fatto non lo è: la chitarra di Victor Herrero e la voce di Giovanna Marini in “Zompa la rondinella”, insieme, funzionano, così come i Los Lobos nell’interpretare un canto tradizionale del Sud Italia come “La padrone mia”. Se per la rielaborazione dei testi si può parlare di folk revival, musicalmente siamo nel territorio della world music anni Novanta, quella che mise insieme, per esempio, il tex-mex con il folk galiziano in Santiago dei Chieftains, con l’aggiunta di una particolare attenzione per gli strumenti tradizionali e l’ambientazione sonora degli stessi. Le Canzoni della Cupa sono un piacevole inganno, perché suonano terribilmente autentiche: sembra di stare lì, a un passo dal gruppetto di donne che cantano all’unisono, o seduti accanto al suonatore di tamburello. Un gioco malizioso e forse anche un po’ pericoloso, che l’ascoltatore distratto (o semplicemente poco informato) potrebbe prendere come verosimile.
Un discorso a parte va fatto per Matteo Salvatore, autore amatissimo da Vinicio, presente in questo album grazie al rifacimento di sei suoi brani: Salvatore, autore e interprete folk, è stato nell’ultimo decennio per Capossela la chiave d’accesso alla cultura popolare, almeno quanto Tom Waits lo è stato per la canzone d’autore. “Il lamento dei mendicati”, “Nachecici (I maccheroni)”, “Lu furastiero”, “La notte è bella da soli”, “Rapatatumpa (I proverbi paesani)” e “Lu bene mio” pagano il tributo a uno dei più grandi (e poco conosciuti) proto-cantautori del secondo dopoguerra. Attraverso Salvatore e all’uso del dialetto Vinicio riformula il suo stile linguistico, che diventa più aspro e sanguigno, mentre la sua poetica si arricchisce di immagini inedite. Tuttavia, il cambiamento non è stato repentino ma è maturato nell’arco degli ultimi anni: è il caso, ad esempio, di un certo immaginario animalesco (non solo nelle canzoni ma anche nei costumi di scena e in certi spettacoli a tema come fu Il carnevale degli animali del 2013), che già apparteneva alla poetica caposseliana, ma che qui prende la forma concreta del bestiario, fonte inesauribile di racconto sia per l’immaginario folk che per quello epico-mitologico.
La carriera di Vinicio è un viaggio intrigante, le cui tappe a volte sembrano poco sensate, ma alla fine tutto torna e acquista coerenza. Canzoni della Cupa è un disco riuscito? Sì, lo è, perché tira le fila di un lungo, ambizioso discorso sulla cultura e sulla musica folk, dal quale Capossela esce rinnovato sia come interprete che come autore. D’altro canto, ne “Il treno” – bellissimo pezzo western dall’incedere morriconiano – egli stesso dichiara apertamente questa voglia continua di cambiamento: “Così come ero restar non posso / quello che sono mi porto addosso / quello che sono mi porto addosso”.