Viaggio al termine del Nulla
Padova: Haas, in vain con Angius e l’Orchestra di Padova e del Veneto

Nel 2000 Georg Friedrich Haas diede alla luce in vain (tutto minuscolo), una composizione per orchestra di 24 strumenti (i classici, niente ghironda o theremin), che Sir Simon Rattle definì «one of the first masterpieces of the 21st century». Per essere bella, lo è. Il titolo allude all’infinita vanità del tutto, e traghetta nel ventunesimo secolo i temi cari al ventesimo: la ridefinizione di spazio e tempo, la perdita del centro, la disgregazione del soggetto, l’incertezza, l’instabilità. Temi che ormai ci fanno sentire a casa, temi, oseremmo dire, classici. Infatti la scrittura di Haas è classica; la struttura complessiva è una normale, benché immensa, forma-sonata. I suoi due poli sono il sistema temperato, con scale di Shepard che dilamano verso il basso dando un senso costante di frana; e lo spettralismo, con ondate di armonici microtonali che minacciano, ruggiscono, s’acquetano. I due poli vengono sviluppati e poi ripresi; una coda apocalittica chiude il brano. In mezzo, due sezioni dove è previsto che la luce in sala cali fino alla completa oscurità. Qui, «la comunicazione fra i musicisti avviene esclusivamente sulla base della situazione sonora», scrive Haas in partitura. Anche l’alea dunque, quando cala il buio, è controllata. L’ascoltatore vi ha la sensazione che il tempo diventi fumo, e lo spazio il vuoto grembo del Nulla. Solo l’arpa, nella prima sezione di buio, tenta di ricostruire una melodia, invano. Insomma, un gran pezzo, nemmeno troppo ostico, e perciò un applauso va di diritto tributato a Marco Angius e all’Orchestra di Padova e del Veneto per aver proposto in vain nella quinta edizione di «Veneto Contemporanea»: una rassegna, scrive Angius, coraggiosamente «inattuale» e «incurante del compiacere le masse», che infatti, da brave, non sono convenute. I venticinque happy few presenti all’Auditorium Pollini sembravano però soddisfatti.
È difficile dire se l’orchestra abbia suonato bene o male. Talora si notavano delle imprecisioni. Che ci fossero in momenti di piena luce, càpita, e non sottilizziamo: la scrittura rimane molto complessa ed è un attimo contare una battuta in più o in meno. Sono cose che, per un’orchestra che ci crede, si risolvono con buona volontà e giorni di prove in più. E il loro effetto può essere neanche del tutto fuori luogo: ad esempio, c’è un momento in cui è previsto che gli ottoni in sezione incomincino a suonare compatti un motto, ma senza riuscire a concluderlo compiutamente. Se l’intonazione dell’attacco è incerta, come è accaduto, la sensazione che se ne ha è quella di un’ulteriore ombra di dubbio sul volto buono e fedele di Anton Bruckner. Che, a dir la verità, è un po’ il nume tutelare di in vain, e ci porta al tema cardine: la fede vs. il nichilismo. Giacché, quando cala il buio, il discorso delle imprecisioni tecniche s’ingarbuglia, e diventa metafisico. Se l’intento del compositore è far procedere i musicisti a tentoni, toglier loro la sicurezza del terreno sotto i piedi, costringerli ad avere come unici punti di riferimento i suoni prodotti dagli altri, dare a loro e a tutti il senso del buio che c’inghiottirà e della vanitas che ci polverizzerà, quello di attaccare lì e non là, di fare un arpeggio o un glissando, di suonare un do o un fa, non è, di per sé stesso, un atto di fede in qualcosa? Sembrava che l’orchestra si dividesse in creduli e increduli, in privilegiati con la fede e poveri cristi senza. Come si fa a dare un giudizio?
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