La maga Alcina fa prodigi all’Opera di Roma

 Prima esecuzione a Roma di quest’opera di Händel, in un’ottima esecuzione

Alcina (Foto Fabrizio Sansoni Opera di Roma)
Alcina (Foto Fabrizio Sansoni Opera di Roma)
Recensione
classica
tempo di lettura 6'
Roma, Teatro dell’Opera
Alcina
18 Marzo 2025 - 26 Marzo 2025

Rispetto ad altri paesi, in Italia la riscoperta delle opere di Händel sta avvenendo in ritardo e timidamente. L’Opera di Roma non fa eccezione ma - per volontà o per caso: tutto lascia pensare che sia vera la prima ipotesi - a poco più di un anno di distanza dal Giulio Cesare rappresenta ora Alcina, considerata una delle vette di Händel operista e di tutta dell’opera barocca. È anzi un’opera iperbarocca, che ai consueti travestimenti, inganni, intrighi, scambi di persona e amori non corrisposti aggiunge ben due fate, i cui incantesimi e prodigi innescano - o piuttosto innescarono alla prima londinese del 1735 - effetti scenici stupefacenti. 

Ma ben più stupefacenti sono gli incantesimi e i prodigi che la musica di Händel sciorina durante tre ore. E sarebbero anche più di tre ore, senza i tagli praticati in quest’edizione, che hanno riguardato soprattutto le danze, introdotte da Händel per cercare di controbattere con celebri ballerini venuti da Parigi ai migliori cantanti italiani che la rivale Opera of the Nobility si era accaparrati. Ma anche il King’s Theatre di Händel non stava così male a cantanti, se in Alcina poté schierare Anna Maria Strada e il Carestini nei ruoli principali. I tagli praticati in queste rappresentazioni romane e lo spostamento di alcune arie e di intere scene non devono assolutamente scandalizzare, perché lo stesso e anche di peggio accadeva all’epoca, quando i cantanti tagliavano le arie o le aggiungevano o le sostituivano con altre più gradite e inoltre avevano mano libera nell’aggiungere abbellimenti e nell’alzare o abbassare le note delle loro parti. Sicuramente Händel stesso non poté ascoltare le sue opere eseguite esattamente come le aveva scritte.

Ma torniamo alle tre ore di incantesimi e prodigi musicali (con gli intervalli lo spettacolo raggiunge la durata wagneriana di quattro ore) che Händel prodiga sulla base di un libretto di autore anonimo, piuttosto breve (meno di quaranta pagine) e poco interessante. Confessiamo che alla fine del primo atto si pensa con un po’ di apprensione alle ore che ancora ci attendono. Ma poi più il tempo passa e più si vorrebbe che la conclusione si allontani e che i prodigi di Alcina non finiscano mai. E quando diciamo Alcina intendiamo sia l’opera intera sia la sua protagonista. La rara immacolata bellezza del timbro della voce è l’incanto con cui di primo acchito Mariangela Sicilia soggioga gli ascoltatori, poi man mano si è totalmente ammaliati anche dalla linea purissima della melodia, dalle dinamiche calibrate al millimetro, dal perfetto controllo dei fiati, dal fascino con cui porge le parole, irretendo così l’ascoltatore, che si sente racchiuso come in un bozzolo di suono dorato. In particolare questo avviene nelle sue due arie del secondo atto, “Ah, mio cor!” e “Ombre pallide”, che sono un vero prodigio, da cui si è trasportati in un mondo iperuranio, dove il tempo non scorre come su questa terra, cosicché, quando alla fine si ritorna in sé, non si sa quanto tempo sia passato, cinque minuti o mezz’ora? Ringraziamo la Sicilia anche perché le sue colorature sono perfette ma non iperboliche e dissennate.

Le sta alla pari Carlo Vistoli, nella parte dell’altro protagonista, Ruggiero. È un “barocchista” senza manierismi, un virtuoso che sa dosare la giusta quantità e qualità delle fioriture, un controtenore dalla voce duttile e timbrata, un interprete sensibile che dà il valore e l’ombreggiatura giuste alle parole. Cosa chiedere di più? Sono loro le due punte del cast. Ma anche gli altri interpreti sono di livello più che buono. Morgana - sorella di Alcina e maga come lei, ma dal carattere più leggero - è Mary Bevan, che a dire il vero delude un po’ (dizione non perfetta, acuti un po’ asprigni) nelle due arie che aprono e chiudono il primo atto, soprattutto nella famosissima “Tornami a vagheggiar”, quando è inevitabile il confronto con tante celebri interpreti. Ma nei due atti successivi è ineccepibile. La giovane mezzosoprano Caterina Piva (Bradamante) era al suo debutto romano ed è stata una piacevolissima sorpresa. La parte di Oberto, scritta da Händel per una voce bianca, era affidata al soprano Silvia Frigato, che canta con voce e stile impeccabili ed è anche un’attrice vivace e disinvolta. Ottima la prova di Francesco Salvadori, nel ruolo non molto esteso di Melisso, una parte da basso ma abbastanza acuta, cosicché si adatta benissimo ad un baritono qual egli è. Si è disimpegnato piuttosto bene Anthony Gregory nella parte di Oronte, che ha ben tre arie ma di non grande rilievo.

Per ottenere questo livello della realizzazione musicale è stata fondamentale la direzione di Rinaldo Alessandrini, che ha dato un bel risalto a tanti passaggi orchestrali, ottenendo dall’orchestra del teatro - ovviamente in formato ridotto: trenta elementi, più o meno come l’orchestra di Händel - una risposta esemplare, tanto che era difficile credere che questi strumentisti avessero, tranne tre o quattro eccezioni, pochissima esperienza della musica barocca. Alessandrini ha lavorato meravigliosamente anche e soprattutto con le voci, non limitandosi ad accompagnarle nel senso riduttivo che si dà generalmente a questo termine, ma sostenendole e guidandole, con tempi, dinamiche e colori espressivi di straordinaria bellezza. Ottimo, come ormai è la norma, il Coro diretto da Ciro Visco, che in Alcina  ha una parte di maggior rilievo di quanto avvenga di solito nelle opere barocche.

Degna cornice di questa Alcina  era l’allestimento scenico proveniente dalla Nationale Opera di Amsterdam, firmato da Pierre Audi (regia), Patrick Kinmonth (scene e costumi) e Matthew Richardson (luci). L’intento di Audi non è quello di ricreare i fasti e le meraviglie (che oggi non meraviglierebbero nessuno) del teatro barocco e quindi rinuncia totalmente a mostrare le magie di Alcina. Il palcoscenico vuoto (l’unico arredamento è una sedia, in alcune scene) è incorniciato da semplici quinte, che raffigurano ora un bosco verdeggiante, ora i pilastri di un palazzo. Fa eccezione l’ultima scena, le cui pareti lignee e le cui casse rappresentano la prigione in cui Alcina ha rinchiuso i suoi amanti trasformati in animali. I personaggi sono vestiti in abiti settecenteschi “alleggeriti” (niente crinoline, busti, parrucche voluminose, ecc.) e hanno una recitazione mossa ma ben calibrata, che dà ritmo e snellezza ad un’azione che potrebbe rischiare di essere molto statica. 

Gli applausi lunghi e calorosi hanno certificato l’apprezzamento del pubblico, che tuttavia non esauriva completamente la vasta sala del Costanzi.   

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

classica

I Brandeburghesi con l’Orchestra del Maggio

classica

Firenze: MAGNETICA, Incontri di musica elettronica a Tempo Reale

classica

Al Teatro Filarmonico di Verona Elektra di Richard Strauss chiude la stagione invernale