Il cappotto di Agamennone
Al Teatro Filarmonico di Verona Elektra di Richard Strauss chiude la stagione invernale

Tre donne: una tutta rivolta al passato, un’altra prigioniera di un angosciante presente e la terza protesa al futuro che è pronta ad abbracciare. Sono le tre protagoniste dell’Elektra secondo Yamal das Irmich, regista dell’opera di Richard Strauss andata in scena al Teatro Filarmonico di Verona come ultimo titolo prima della stagione areniana. Parte da considerazioni interessanti sui principali attori della tragedia il regista, che vede Klytämnestra non un’omicida ma una femminista ante litteram in lotta contro l’autoritarismo maschile incarnato dal marito Agamennone. Emotivamente poco attrezzata, però, finisce per farsi divorare dall’angoscia circondandosi di fattucchiere e ciarlatani (sic). Può in effetti sorprendere l’apparizione della regina dietro al grande sipario drappeggiato all’austriaca come in un cabaret berlinese degli anni di Weimar, ma questa Elektra proietta la reggia degli Atridi negli anni della caduta degli dei (in senso viscontiano) e dell’affermarsi di un potere violento vestito delle camicie brune di Orest e dei suoi sgherri. E nell’attesa dell’arrivo nuovi potenti, l’odio reciproco consuma quel che resta degli Atridi/Hohenzollern (con qualche licenza sulla Storia) in un grande salone di gusto déco disegnato da Alessia Colosso (i costumi intonati all’epoca sono invece di Eleonora Nascimbeni).
Elektra vive nell’ombra del ricordo del padre Agamennone/Guglielmo II, che la osserva dal grande quadro appeso sul caminetto e il cui cappottone militare e elmo chiodato la donna indosserà, a vendetta avvenuta, prima della sua fine. L’aggiornamento, pur coerente nella chiave scelta, fin troppo estetizzante finisce per depotenziare l’urticante ruvidezza dell’originale, a partire dalla ferina aggressività della protagonista Elektra, qui completamente domata nel salotto buono di casa, e ne sterilizza la violenza del suo violento confronto con l’odiata madre. Anche Chrysothemis non ne esce benissimo: il suo anelito verso la vita è ridotto a una brama sessuale che la spinge a darsi alla prima camicia bruna disponibile.
La stessa tendenza si coglie anche nella linea di canto di Lise Lindström, una Elektra vocalmente solida ma fin troppo lirica nell’espressione, curiosamente superata per focosa vivacità di carattere da Soula Parassidis, una Crysothemis fin troppo bambina e smaniosa. Alla vocalmente inappuntabile Klytämnestra di Anna Maria Chiuri manca tuttavia l’allucinata follia del personaggio, mente l’Orest di Thomas Tatzl non si distingue per particolare espressività e l’Aegisth di Peter Tantsits ha il pregio di non spingersi troppo sul registro farsesco. Discreto il resto della compagnia, specialmente il gruppo delle ancelle (Lucia Cervoni, Marzia Marzo, Anna Werle, Francesca Maionchi, Manuela Cucuccio) anche se poco sonoro.
Sceglie, per la prima volta in un teatro Italiano, la versione curata da Richard Dünser più leggera nell’orchestrazione il direttore Michael Balke, che comunque non lesina sui volumi richiesti all’impeccabile Orchestra della Fondazione Arena di Verona. Sul piano orchestrale l’esecuzione è eccellente, anche se spesso la densità del suono orchestrale tende a coprire le voci.
Qualche vuoto in sala alla prima. Molti applausi.
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