A Venezia le illusioni di Hoffmann

L’opera di Jacques Offenbach apre con successo la nuova stagione del Teatro alla Fenice per la prima volta alla presenza del Presidente Sergio Mattarella

Les Contes d’Hoffmann (Foto Michele Crosera)
Les Contes d’Hoffmann (Foto Michele Crosera)
Recensione
classica
Venezia, Teatro La Fenice
Les Contes d’Hoffmann
24 Novembre 2023 - 02 Dicembre 2023

Sono le 18 in punto quando l’Orchestra del Teatro La Fenice intona “Fratelli d’Italia”. Dal palco reale si affaccia il Presidente Sergio Mattarella e scatta subito il lungo applauso del pubblico in gran spolvero per questa apertura di stagione (il “black tie” è d’obbligo). Non sarà l’ufficialità del Sant’Ambrogio scaligero, ma questa prima volta di Mattarella alla prima della nuova stagione del massimo teatro veneziano, a vent’anni esatti dalla ricostruzione dopo il disastroso incendio nel 1996, sollecita l’orgoglio dei presenti e della dirigenza del teatro e, in segno di rispetto all’ospite illustre, fa rientrare la minaccia di sciopero che pende sulle inaugurazioni delle fondazioni lirico-sinfoniche.

Chiusa la parentesi istituzionale, la parola passa al teatro. O piuttosto al grande teatro, poiché per la prima volta dopo innumerevoli aperture nel segno di Verdi – parentesi del Fidelio a parte per l’anno beethoveniano – tocca a Les contes d’Hoffmann di Jacques Offenbach, opera incompiuta e autentico puzzle musicologico, lavoro di grandi ambizioni e molto esigente di mezzi, messi a disposizione con grande munificenza dal teatro per questa inaugurazione.

L’allestimento di Damiano Michieletto, tenuto a battesimo nello scorso luglio all’Opera Australia di Sidney, che coproduce lo spettacolo con la Royal Opera House Covent Garden di Londra e l’Opéra National de Lyon, punta decisamente sul grande spettacolo. Un viaggio nel tempo, uno sguardo nelle diverse età della vita del protagonista Hoffmann riflesse nelle tre donne Olympia, Antonia e Giulietta, vanamente inseguite come anelito a una felicità impossibile (e probabilmente inesistente), e nella diva Stella, che nel finale assume le sembianze demoniache dell’artefice delle illusioni perdute del poeta. Nella scena a impianto fisso con elementi modulabili immaginata da Paolo Fantin, un perfetto equilibrio di spettacolarità e funzionalità, le tre fasi della vita di Hoffmann sono la scuola per l’atto di Olympia, la scuola da ballo per l’atto di Antonia, e un ambiente equivoco che ricorda le eleganti sale dell’orgia di Eyes Wide Shut con tanto di maschere veneziane dall’aria sinistra per l’atto di Giulietta.

Les Contes d’Hoffmann (Foto Michele Crosera)
Les Contes d’Hoffmann (Foto Michele Crosera)

È anche uno spettacolo ricco di autocitazioni per Michieletto, quasi un esercizio metateatrale, come se nel vano inseguire l’oggetto amoroso di Hoffmann si riflettessero i fantasmi teatrali del regista veneziano: la scuola come nel Flauto magico di qualche stagione sullo stesso palcoscenico, il gioco di riflessi fra genitori e figli nell’atto di Antonia come nel Rigoletto di Amsterdam (ripreso nel teatro veneziano) o nell’Aida  di Monaco per non dire della pioggia di violoncelli come quella degli strumenti del Ferne Klang  a Francoforte. Non c’è autocompiacimento, tuttavia, ma l’esibizione di una maturità tecnica messa al servizio di una spettacolarità, talora ipertrofica e circense, con abbondanti interventi coreografici “diabolici” di Chiara Vecchi e gran sfoggio di costumi usciti dalla fantasia eteroclita di Carla Teti.

Subentrato sul podio al previsto Antonello Manacorda, Frédéric Chaslinsi fa vanto di aver diretto 700 volte quest’opera, esperienza che mette al servizio di una guida affidabile più che inventiva, con qualche squilibrio con la scena, esito di una predilezione per volumi talvolta eccessivi, tanto più in una sala acusticamente generosa come quella del Teatro La Fenice. Chaslin dà comunque anche il dovuto risalto al prezioso dettaglio strumentale di questo Offenbach tardivo, specie nei frequenti assoli riservati al violoncello, strumento d’elezione del compositore, e al cesello dell’arpa e dei legni, complice un’Orchestra del Teatro La Fenice in grande forma.

Locandina lunga e ben assortita, fatta di debuttanti in quasi tutti i ruoli. Eccezione sono l’Hoffmann di Ivan Ayon Rivas, emissione sicura e squillo radioso anche se non proprio un asso della scena, come invece è Alex Esposito, istrionico e gigionesco Lindorf, Coppélius, docteur Miracle e Dapertutto e persino musa “en travesti” ma in tutti i ruoli vocalista d’eccezione. Nel tris delle donne di Hoffmann brillano soprattutto Rocío Pérez, Olympia poco meccanica ma vocalmente virtuosa come deve, e Carmela Remigio, Antonia ad alta temperatura drammatica, mentre Veronique Gens è una Giulietta aristocraticamente algida. Il versatile Didier Pieri brilla soprattutto come Frantz in una inedita veste di acciaccatissimo maestro di ballo, e Giuseppina Bridelli è un Nicklausse dall’espressione elegante e in abito di pappagallo, proiezione della creatività di Hoffmann e forse simbolo del potere del linguaggio e della narrazione come in alcune civiltà extra-europee. Senza smagliature il resto del cast con la spiritosa Musa di Paola Gardina, lo spiritato Spalanzani di François Piolino, l’accorato Crespel di Francesco Milanese e giù fino a Christian Collia e Yoann Dubruque, Nathanaël e Hermann, allegri clienti della taverna di Mastro Luther.

Risposta festosa con generosi applausi e numerose chiamate per tutti.

 

 

 

 

 

 

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