Una drammaturgia di Glass, tra Cocteau e Satie

Les enfants terribles va in scena in Abruzzo, in un allestimento con giovani interpreti sulla scena

Les enfants terribles
Les enfants terribles
Recensione
classica
Spoltore, Largo San Giovanni
Philip Glass, Les enfants terribles
21 Agosto 2022

Lo Spoltore Ensemble, storico festival multidisciplinare abruzzese giunto alla quarantesima edizione, si regala un’incursione nel teatro musicale contemporaneo attraverso una produzione del Guardiagrele Opera Festival (realtà regionale assai più giovane), nel cui ambito lo spettacolo è andato in scena il giorno successivo: Les enfants terribles è l’ultimo titolo di una trilogia dedicata da Philip Glass a Jean Cocteau, concepito originariamente – assieme alla coreografa Susan Marshall – come ‘opera danzata’, coi ruoli di una trama maudit (al centro, due fratelli emotivamente e morbosamente inseparabili, la cui post-adolescenza è eternata in una morte fatale) raddoppiati tra canto e danza. La riproposta di Les enfants terribles, dopo molti anni d’assenza dall’Italia (dove pure fu allestito subito dopo la première mondiale, nel 1996), si deve anzitutto alla natura cameristica della partitura: accanto ai quattro personaggi – uno sdoppiato nel ‘demone’ Dargelos e nel mancato angelo salvatrice Agathe – un organico strumentale di soli tre pianoforti, più un narratore recitante a commentare perlopiù le azioni mimate o danzate, quando quella componente mediale è attiva. Considerato che il linguaggio musicale dispiegato da Glass negli strumenti è il suo consueto da metà anni Settanta (iterazioni ipnotiche coniugate a una grammatica armonica tonale, ma non sempre alla sua sintassi), e che la vocalità dei personaggi è sempre rigorosamente sillabica e – in un quadro perlopiù dialogico – priva di ripetizioni tematiche, ne viene fuori una drammaturgia ancipite: i due flussi – strumentale e vocale – da un lato scorrono paralleli, dall’altro si affiancano in una direzione drammatica cooperativa per alcuni momenti-chiave drammatici; sembra una soluzione che sviluppa in chiave interpersonale e simbolista-debussiana le premesse del teatro musicale di Satie, non per niente coltivato dal primo Cage, le cui sospensioni timbriche – si pensi a In a landscape – vengono approfondite nelle trame pianisticamente più interessanti della partitura. La regia di Aldo Tarabella è stata veramente minimale, e a Spoltore non ha potuto contare sulle proiezioni video-scenografiche curate da Aelion Proect (programmate invece per l’esecuzione di Guardiagrele) che forse sostituivano in parte il medium della danza, la cui assenza ha portato allo sguarnirsi di alcune azioni in palcoscenico.

Coi suoi limiti, la proposta in un contesto fresco e non specializzato rimane meritoria, se non spericolata: i quattro interpreti scenico-vocali sono stati tutti giovani cantanti, preparati all’interno del laboratorio guidato entro Guardiagrele Opera da Susanna Rigacci: Vittoria Licostini (soprano, Elisabeth) e Alessandra Germano (mezzosoprano, Agathe) sono apparse – soprattutto la prima – assai più avanti, sul piano della solidità vocale e della sicurezza della parte, rispetto ai loro ancora acerbi colleghi maschili (Valdrin Gashi e Gaetano Amore). Ma il compito era senza dubbio impegnativo per loro, considerata la mancanza di ‘numeri chiusi’ e la rigorosa condotta – di complessa memorizzazione – della scrittura vocale, sommata a una metrica strumentale spesso sghemba (i tradizionali metri dispari-additivi di Glass); tanto che un personaggio ha cantato spesso ‘a spartito’, con soluzioni registiche peraltro ben risolte nell’azione, onde limitare le difficoltà nelle entrate. Maurizio Colasanti, oltre a guidare i tre pianoforti (Ivana Francisci, Luigi Fracasso, Michele Natale) e la recitante (Chiara Prucher), tutti a vista in palcoscenico, si è speso a inseguire – non senza patemi – l’avvicendarsi di queste entrate. Pubblico comunque generoso alla fine di applausi, ancorché strangolati da un frettoloso spegnimento delle luci ambientali.

 

 

 

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