La prima volta di Stiffelio a Verona
Al Teatro Filarmonico debutta l’opera verdiana in un allestimento del Teatro Regio di Parma
È probabilmente l’opera più sfortunata di Verdi questo Stiffelio: ostacolata dalla censura, accolta tiepidamente dal pubblico alla prima triestina nel 1850, riproposta con qualche modifica come Guglielmo Wellingrode a Firenze l’anno dopo e quindi dotata non solo di titolo, Aroldo, ma anche di una veste del tutto nuova nel 1957 ma senza risultati significativi. Eppure “Stiffelio è buono ed interessante” per Verdi, che a quella creatura sfortunata teneva davvero molto. Ancora oggi, a oltre mezzo secolo dalla sua ripresa in tempi moderni, Stiffelio resta una presenza sporadica sulle scene liriche e stenta a imporsi nonostante abbia tutti gli ingredienti più genuini del teatro verdiano degli esordi ma un cabalettismo compulsivo assai più attenuato e anticipi la penna più penetrante della grande maturità verdiana. Rigoletto, primo pannello della trilogia popolare, arriverà solo un anno dopo.
Con queste premesse non sorprende che si tratti di una prima assoluta per il Teatro Filarmonico di Verona, contenitore della stagione extra-Arena (fra l’altro, “geneticamente” verdiana), dove si è scelto di presentare l’opera in un allestimento del Teatro Regio di Parma vecchio di 12 anni che sembra concepito soprattutto per accontentare i palati dei melomani più tradizionali ma molto meno per rendere giustizia a un’opera che necessiterebbe di uno sguardo drammaturgico più tagliente. Il regista Guy Montavon implementa le disposizioni sceniche evitando ogni invenzione e con generoso ricorso al consueto repertorio di stereotipi melodrammatici. L’ingenua simbologia dispiegata sulla scena, specialmente nelle scelte cromatiche dei costumi di foggia ottocentesca di Francesco Calcagnini, è didascalica quanto basta: se gli assasveriani vestono tutti di un nero penitenziale, al seduttore Raffaele si addice il rosso (trova l’intruso), e invece la fedifraga Lina vira dal nero assasveriano al bianco virginale nel momento del (supposto) perdono dello Stiffelio tradito nel sermone del finale. Più monocrome le scelte scenografiche dello stesso Calcagnini: da uno spazio piuttosto monotono abitato da un lungo tavolo con crocifisso per il primo atto, una cancellata con parsimoniosa distesa di croci/pugnali per il cimitero del secondo atto, riserva il colpo di scena nel quarto d’ora del sermone finale di Stiffelio. Il pastore sta chino su una Bibbia gigante fra pareti foderate simmetricamente di altre bibbie presumibilmente aperte alla pagina della pericope dell’adultera come anche raccontano le pietre sospese sulle teste dei fedeli pronte a essere scagliate da chi è senza peccato (e sospese, quindi, resteranno).
Detto del modesto allestimento, della musica si può dire solo bene, a cominciare dall’energica direzione musicale di Leonardo Sini, fortemente chiaroscurata e improntata a una grande cantabilità. Al colore verdiano provvede efficacemente l’Orchestra della Fondazione Arena di Verona impeccabile anche nei non pochi passaggi solistici (ottima la tromba nella corrusca ouverture). Luciano Ganci è uno Stiffelio impeccabile per nobiltà di fraseggio e linea vocale limpida e sicura, quanto Vladimir Stoyanov che disegna uno Stankar all’insegna della misura a dispetto degli eccessi caratteriali concepiti da Piave. Caterina Marchesini, invece, è una Lina pienamente risolta sul filo del canto ma piuttosto inerte sul versante drammatico come Carlo Raffaelli che poco può fare per dare spessore a un Raffaele certo mal servito dalla penna del poeta ma non aiutato da una certa negligenza registica. Fra gli altri, si distingue Gabriele Sagona per la nobiltà espressiva che infonde a Jorg. All’altezza della fama la solida prova offerta del Coro della Fondazione Arena di Verona ottimamente preparato da Roberto Gabbiani.
Alla prima qualche contestazione iniziale per uno sciopero annunciato che fa ritardare l’apertura di sipario di una quindicina di minuti, ma caldi applausi per tutti alla fine.
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