A Padova un “Flauto magico” di giovani voci

Dopo Treviso, approda al Teatro Verdi l’opera di Mozart con i vincitori del Concorso “Toti Dal Monte” 

Die Zauberflöte (Foto Michele Crosera)
Die Zauberflöte (Foto Michele Crosera)
Recensione
classica
Padova, Teatro Verdi
Die Zauberflöte
29 Dicembre 2024 - 31 Dicembre 2024

Dopo l’inevitabile omaggio a Puccini con Madama Butterfly, la breve stagione delle coproduzioni dei tre teatri di tradizione del Veneto prosegue con un titolo mozartiano non troppo frequente nei nostri cartelloni lirici come Die Zauberflöte, che dopo il battesimo di novembre al Teatro Comunale “Del Monaco” di Treviso approda al Teatro Verdi di Padova per due sole recite per salutare l’anno che se ne va. 

Nelle intenzioni, protagonisti dovevano essere i giovani vincitori delConcorso “Toti dal Monte” ma dei dieci ruoli in palio solo sei sono stati assegnati. Fra questi l’ottimo Tamino di Andrew Kim, tenore dal timbro luminoso e volume importante ma usato con misura e intelligenza, le tre dame della Regina della Notte di Vittoria Brugnolo, Daiana Aksamit e Eleonora Filipponi, molto affiatate e tutte dotate di mezzi vocali promettenti e verosimilmente destinate a repertori più impegnativi (soprattutto la terza), e l’effervescente Papagena di Anna Battaglia-Vedovato che sfodera una certa personalità nel sempre divertente duetto con Papageno (e il suo “body double” attempato, Linda Zaganiga, si concede una gag dialettale nel suo primo incontro con l’uomo a lei destinato). Nelle recite di Padova la Pamina laureata di Aitana Sanz (presente a Treviso) viene sostituita da Maria Laura Iacobellis, poco efficace nei non smaglianti passaggi recitati ma impeccabile nel canto, che dona al personaggio un suadente colore lirico. Anche il resto del cast è fatto di giovani voci, tutte particolarmente intonate ai rispettivi ruoli. Ottima la Regina della Notte di Maria Sardaryan soprattutto nella micidiale aria “Der Hölle Rache” affrontata con sicurezza e ferreo controllo tecnico, che strappa al pubblico l’applauso più convinto. Altrettanto riuscite le prove di Gianluca Buratto, un solido Sarastro forse un pelo troppo ieratico nell’espressione, e Rodion Pogosov, un Papageno disinvolto e sfrontato come tradizione impone ma sempre misurato nell’espressione vocale. Più impacciato, invece, Marcello Nardis, che è un Monostatos dalla faccia bianca, e Alessandro Ravasio, è un Oratore dal tono solenne. Se la cavano molto bene i tre geni, che sono i giovanissimi Lorenzo Pigozzo, Khloe Kurti e Giovanni Maria Zanini: intonazione piuttosto sicura e grande naturalezza in palcoscenico. Qualche impaccio invece si nota negli interventi del Coro Lirico Giovanile A.LI.VE., comunque apprezzabile sul piano musicale, che sconta probabilmente un rodaggio non del tutto sufficiente. 

Se l’esecuzione musicale di questa produzione è nel complesso riuscita, è anche e soprattutto per la presenza di un direttore di vasta esperienza operistica come Giuliano Carella, che accompagna gli interpreti con autorevolezza e perizia attraverso la sua lettura ben bilanciata fra enfasi drammatica e leggerezza fiabesca. È anche ottimo il suo lavoro con l’Orchestra di Padova e del Veneto, mozartiana già dal battesimo e l’impronta genetica si fa sentire nell’agilità degli archi, nel prezioso cesello dei fiati e nella pienezza di suono degli ottoni. 

Alla parte scenica pensa Paolo Giani Cei, che firma regia, scene e costumi. Dei tre mestieri prevale nettamente quello dello scenografo: mezzi piuttosto semplici ma di effetto, nella rilettura in chiave futuristica del tradizionale repertorio iconografico preso a prestito dall’antico Egitto. Nonostante il dinamico disegno luci, l’impianto scenografico risulta però poco vario – si muovono solo i sei pilastri laterali mentre non cambia il fondale con un grande occhio con un’iride labirintica, nascosto solo nel finale da un esoterico triangolo nero – mancando soprattutto una solida idea drammaturgica e una efficace direzione attoriale. Le invenzioni registiche restano piuttosto estemporanee – l’esibito registro sadomaso scelto per Regina e dame appiattisce la natura ambigua della madre di Pamina, lo sfruttamento schiavista che rimanda all’antichità egizia resta appena abbozzato e decisamente irrisolto – e alla fine prevale il consueto alfabeto di gesti e situazioni, che fanno amare da secoli questa favola in musica. 

Entrambe esaurite le due recite del cartellone. Caldo successo. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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