Un “Trovatore” a tinte forti e cupe
A Piacenza tutto esaurito e tanti applausi per il nuovo allestimento con la direzione di Matteo Beltrami e la regia di Stefano Monti
Da una lato le tinte decise della compagine vocale e della direzione musicale di Matteo Beltrami e, dall’altro, le atmosfere materiche e cupe della visione registica di Stefano Monti: queste sono le cifre che hanno caratterizzato il nuovo allestimento de Il trovatore di Giuseppe Verdi, andato in scena lo scorso fine settimana al teatro Municipale di Piacenza nell’ambito di una coproduzione che vede impegnati anche i teatri di Modena, Livorno, Savona e Lucca.
Secondo titolo verdiano della stagione piacentina, dopo il Rigoletto proposto lo scorso mese di dicembre, a distanza di 170 anni dal suo debutto romano del gennaio 1853 l’opera centrale della “trilogia popolare” ha confermato anche in questa occasione il fascino esercitato nei confronti di un pubblico che ha fatto registrare il tutto esaurito per entrambe le recite previste.
Il contesto originario riferito alla Spagna all’inizio del secolo XV è stato rievocato dalla lettura scenica di Monti attraverso una struttura ordinata e compatta, i cui moduli imponenti e lineari si spostavano a richiamare le differenti ambientazioni delle diverse scene. Una cornice materica – la crosta delle pareti e la sua colorazione tra il rosso e il nero brunito, fino a richiami plumbei e rugginosi, possono ricordare idealmente certe opere di Burri – che ha accompagnato l’evolversi della vicenda arricchendo inizialmente l’atmosfera con alternanze sceniche aperte e interlocutorie – efficace, per esempio, la presenza delle ombre del Teatro Gioco Vita ideate da Agnese Meroni quale contrappunto a Leonora e alla sua “Tacea la notte placida” nel primo atto – per poi richiudere progressivamente l’azione tra le mura scure e via via sempre più incombenti, come in una sorta di spirale fatale, massiccia e claustrofobica. Una sorta di inesorabile compattatore di destini e sentimenti, insomma, drammaturgicamente un poco uniforme nella seconda metà della messa in scena, disegnato comunque con solido mestiere dallo stesso Monti – autore anche dei bei costumi dall’originale taglio vagamente orientale, diversi ma affini al recente Tamerlano vivaldiano passato anche su questo palcoscenico – che ha ideato le scene con Allegra Bernacchioni, mentre le luci sono di Fiammetta Baldiserri.
Altrettanto marcato, se non più perentorio, è parso il versante musicale, con le voci dei protagonisti letteralmente in primo piano, a partire dal carattere muscolare del Manrico di Angelo Villari che, nel tratteggiare il suo personaggio, ha rinunciato a ricercare finezze interpretative per restituire un trovatore dal carattere impetuoso, a tratti veemente sulla celeberrima “pira”, contagiando in un certo senso nei momenti di assieme anche il Conte di Luna – un Ernesto Petti che ha nutrito il suo personaggio con bell’impegno sulla scia di una voce salda e presente – e la Leonora incarnata da Chiara Isotton, interprete dalla pasta vocale solida avvalorata da una sensibilità interpretativa efficace, capace di tratteggiare con consapevole determinazione anche alcune sfumature delle impegnative sortite solistiche. A chiudere il quartetto vocale la Azucena di Anna Maria Chiuri, interprete dal segno granitico nel caratterizzare con il nerbo necessario il tormento interiore del personaggio – simbolicamente rimbalzato anche dall’incombente ombra della madre proiettata a inizio e fine della messa in scena – ma anche dotata di efficaci sottigliezze di accento nel tratteggiare le sfaccettature emotive – poche, è vero, ma presenti – della zingara. Completavano il cast Giovanni Battista Parodi (Ferrando), Ilaria Alida Quilico (Ines), Andrea Galli (Ruiz), Domenico Apollonio (Un vecchio zingaro) e Lorenzo Sivelli (Un messo). Matteo Beltrami ha guidato l’Orchestra Filarmonica Italiana con passo sicuro e spedito, ottenendo dalla compagine orchestrale una risposta compatta e complessivamente adeguata, mentre il Coro del Teatro Municipale di Piacenza preparato da Corrado Casati ha offerto una prova lineare con qualche disallineamento ritmico sui passaggi più concitati.
Alla “prima” – recita alla quale si riferiscono queste annotazioni – pubblico generoso di applausi a scena aperta ed entusiasta alla fine nei confronti di tutti gli artisti impegnati, con particolare calore riservato a Villari – ma decisi consensi hanno raccolto anche Isotton, Chiuri e Petti – mentre ci è parso di registrare un apprezzamento un poco più tiepido nei confronti dell’impianto registico.
Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche
A Roma, prima con i complessi di Santa Cecilia, poi con Vokalensemble Kölner Dom e Concerto Köln
Federico Maria Sardelli e il sopranista Bruno de Sá per un programma molto ben disegnato, fra Sturm und Drang, galanterie e delizie canore, con Mozart, da giovanissimo a autore maturo, come filo conduttore