Un Fidelio mozartiano all’Opéra Comique
Il teatro parigino riapre le porte al pubblico con una nuova produzione dell’opera di Beethoven con l’Ensemble Pygmalion e la regia di Cyril Teste
Il primo giorno del ventoso nel sesto anno della Repubblica francese al Théâtre Feydeau si rappresentava Léonore ou L’amour conjugal, “fait historique en 2 actes et en prose mêlée de chants”. Autore del testo era Jean-Nicolas Bouilly, drammaturgo e funzionario giuridico negli anni della Rivoluzione, e della musica Pierre Gaveaux, compositore e primo tenore del teatro. Solo pochi anni dopo quel teatro si sarebbe fuso con la rivale Opéra Comique e quella storia di libertà violata e sopraffazione del potere vinte dall'amore coniugale ma ancor più dal senso di giustizia ispiri altri compositori e soprattutto Ludwig van Beethoven. Sono passati solamente sette anni dal lavoro di Bouilly e Gaveaux quando al Theater an der Wien va in scena la Leonore di Beethoven, destinata a restare il suo unico lavoro operistico anche se più volte rimaneggiato, compreso nel titolo, che diventerà Fidelio nella versione definitiva del 1814.
Per la ripresa definitiva, si spera, degli spettacoli in presenza del pubblico, la parigina Opéra Comique presenta una nuova produzione del Fidelio nell’originale tedesco, diffusa anche in streaming da Arte. Si tratta di una scelta insolita non tanto per la scelta di un titolo non francese (lo è comunque la fonte) come da consuetudine della casa, ma per il taglio con una lunga tradizione che, dopo una prima edizione nel 1829 in quel teatro con una compagnia di lingua tedesca, ha sempre visto questo lavoro nella versione francese fin dal 1898, quando fu proposto nella direzione di André Messager con recitativi al posto delle parti parlate. Per di più questa nuova produzione interrompe anche una sorta di esclusiva sullo Singspiel beethoveniano detenuta dall’Opéra national di Parigi fin dal 1926.
Rispetto alla sorella maggiore, l’Opéra Comique vanta dimensioni più contenute e più simili al Theater an der Wien, condizione che sembra giustificare la scelta, oggi comunque non sorprendente, di un complesso su strumenti d’epoca come l’Ensemble Pigmalion diretto da Raphaël Pichon. Naturalmente non si tratta di una scelta senza conseguenze: il suono, soprattutto degli archi, a tratti fin troppo leggero e trasparente, e i tempi piuttosto spediti, a confronto di quello di compagini tradizionali sembrano trattenere l’afflato drammatico della partitura, specie nel secondo atto, e frenare lo slancio eroico del finale. Nel complesso, si tratta di una interpretazione di delicatezza mozartiana e intimistica come anche la cura cameristica del disegno strumentale sembra suggerire. Del resto lo stesso parterre vocale va nella medesima direzione, a cominciare dalla scelta non già di un tenore drammatico ma di un esperto belcantista come Michael Spyres per il ruolo di Florestan, che il cantante americano interpreta con grande eleganza di fraseggio ed estrema plasticità nell’uso del mezzo vocale.
Piuttosto efficace sul piano scenico, Siobhan Stagg è invece un peso leggero sul piano vocale e la sua Leonore manca talvolta di spessore drammatico, quando non finisce nel cono d’ombra al confronto con il corposo (e ombrosissimo) Rocco di Albert Dohmen ma anche della Marzelline di carattere di Mari Eriksmoen nei pezzi di insieme del primo atto. Anche il discreto Pizarro di Gabor Bretz deve fare i conti con una timbrica vocale poco tenebrosa come pretenderebbe l’anima nera del personaggio. Fra i ruoli minori, Christian Immler disegna un autorevole don Fernando e Linard Vrielink è uno Jaquino di ottime capacità vocali. Infine, formidabile è il coro del Pygmalion, che illumina con un autorevole segno musicale il radioso finale dell’opera beethoveniana.
Affidata a Cyril Teste, cofondatore e direttore artistico del Collectif MxM, la realizzazione scenica, che resta sostanzialmente fedele alla trama del lavoro fatta salva l’attualizzazione a un universo carcerario contemporaneo evocato in un profluvio di divise paramilitari e da carcerati (i costumi sono di Marie La Rocca) e negli ambienti grigi e asettici illuminati da una luce fredda (la scena è di Valérie Grall). Molto presenti sono grandi schermi che rimandano immagini in video, spesso con riprese live, cifra caratteristica del regista, delle violenze di guardie dai modi brutali e dei primissimi piani degli interpreti e specialmente di Leonore, scandaglio delle sue paure. Se la vicenda del Fidelio continua ad avere più di uno spunto che parla a un pubblico contemporaneo, il generoso impiego di mezzi tecnologico non basta a nascondere una certa convenzionalità e debolezza di ispirazione nell’impianto registico. Più che i preparativi per l’esecuzione “pulita” del condannato a morte Florestan o il finale sbrigativamente pacificatorio, il vero colpo di teatro, che dà anche un senso drammaturgico all’abbondanza di immagini in questa produzione, è la sconfitta di Pizarro non con le armi ma con l’occhio implacabile della telecamera.
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