Tra barocco e live-electronics
Tradizione e innovazione nelle opere del Bayreuth Baroque Festival 2023
L’opera può essere lo specchio di una realtà politica e storica coeva alla sua prima esecuzione? È un tema sollevato dagli allestimenti operistici del Bayreuth Baroque Festival, che dal 2020 propone succulente offerte musicali a chi voglia recarsi in Baviera a inizio settembre. Infatti nel Settecento accadeva spesso che le opere fossero messe in scena come moniti a corte e popolo rispetto ad un comportamento da tenere nei confronti di un certo contesto politico. A questo uso diffuso si rifà Max Emanuel Cencic (nella doppia veste di regista e interprete del primo uomo Guido) nella sua lettura di Flavio, Re de’ Longobardi di Händel, in cui ricolloca una vicenda che da libretto sarebbe ambientata nel V secolo d. C nella corte inglese di inizio Settecento di Re Carlo II, in cui immagina che le vicende e le peripezie dei personaggi dell’opera riflettano quelle della stessa corte che sovvenzionava l’allestimento dell’opera Händeliana. Così le lotte di potere del libretto tra Ugone (Fabio Trümpy) e Lotario (Sreten Manojlovic) diventano quelle tra i realmente esistiti Visconte di Bolingbroke e Robert Walpole e tutta la narrazione viene sviscerata quasi come una soap opera in cui si alternano momenti emotivamente intensi a momenti di grande comicità. Il contesto diventa poi un’efficace possibilità per ragionare sulla società in cui Händel operava, e dunque sull’effettivo significato che aveva un’opera, ma anche su questioni delicate come la condizione della donna.
Scene (di Helmut Stürmer, con un imponente impianto “a soffietto” che permetteva il cambio a vista), costumi (di Corina Grâmosteanu) e movimenti di scena ripropongono le attività di corte e di teatro proprie del Settecento (come il gioco d’azzardo) e chi durante il Festival visitasse anche le residenze e i castelli del territorio di Bayreuth si ritroverebbe in stanze arredate con gli stessi mobili e suppellettili visti sulla scena del Teatro dell’Opera dei Margravi, in una compenetrazione tra turismo e allestimento operistico che permette una totale immersione nel barocco.
E se da una parte l’allestimento ammicca a quella parte di pubblico che vuole dallo spettacolo il pezzo di costume, un’immersione nel barocco, dall’altra va oltre il semplice didascalismo, per proporre un’analisi provocante di tutta una società.
Non può non venire in mente il paragone con l’indimenticabile e pluripremiato Alessandro nell’Indie dell’edizione scorsa del Festival, che ci si augura possa essere riproposto presto in forma scenica e con i medesimi interpreti: il mondo degli appassionati di barocco (e non solo) ne sarebbe gratissimo. Come in quel caso, anche in questo allestimento c’è una corte annoiata che si diletta in tradimenti e canti e giochi, al cui centro domina un regnante capriccioso e ossessionato dalla sessualità. Durissima è la denuncia al trattamento dei personaggi femminili, che a porte chiuse subiscono maltrattamenti fisici e verbali. Con sorriso agrodolce il regista propone momenti strazianti, come quello in cui re e regina si producono in una performance finalizzata all’auspicata generazione di un erede, in cui quest’ultima viene trattata con lo squallore della cavalla da monta, in una scena poco dissimile dalle ritualità della fertilità della nota distopica saga televisiva The Handsmaid’s Tale. La violenza avviene durante l’esecuzione di un’aria difficilissima, al cui termine parte addirittura un applauso: lo strazio è dunque amplificato dal fatto che la scena avviene davanti a un teatro, come davanti a una corte, e dunque anche in questo allestimento (proprio come era stato con l’Alessandro) il pubblico è chiamato in causa, in un uso del metateatro che provoca emozioni e sentimenti (poiché se hai inavvertitamente applaudito dopo aver visto una scena violenta sul palcoscenico, non puoi non provare senso di colpa e compassione).
La direzione era affidata a Benjamin Bayl in testa all’ensemble Concerto Köln, una delle più pregevoli in circolazione e, al fianco di Max Emanuel Cencic quale Guido, protagonista dell’allestimento è Julia Lezhneva, con le sue colorature incredibili, la sottigliezza nell’emissione e la sua presenza scenica pregevole. Il sovrano Flavio era Rémy Brès-Feuillet, dall’irrefrenabile vena comica, mentre la seconda coppia di amanti era formata da Yuriy Mynenko (Vitige) e Monika Jägerová (Teodata).
E tra location barocchissime che più barocche non si può, interpreti di questo repertorio tra i più conosciuti a livello internazionale, il programma del festival si srotola vario e dai molteplici stimoli con due opere, di cui una barocca per afferenza ed esecuzione, l’altra nata come la seconda opera della Storia, ed ora reinterpretata in chiave live electionics. Si trattava infatti dell’Orfeo di monteverdiana memoria quello proposto nella rielaborazione musicale e con i live electronics a cura di Panos Iliopulos, per orchestrazione e ideazione di Markellos Chryssicos e regia di Thanos Papakonstantinou. L’aspetto visivo è sintetico, concettuale, tutto sui toni del bianco e del nero con qualche tocco di blu e di rosso. A livello acustico quello che si ascolta appare un Monteverdi scomposto, come certi piatti di alta cucina in cui si vedono gli ingredienti ben divisi e distinti, a partire dalla sinfonia iniziale, che passa dall’essere il più rumoroso tra i “noise killing”, esemplare per eccellenza, al suo opposto: il (quasi) silenzio di una scatola-carillon, che una volta aperta diventa ideale vaso di Pandora da cui sgorga l’intero dramma.
Nella rielaborazione elettronica vi è una connotazione anche stilistica dei luoghi e dei contesti: ad esempio gli Inferi risuonano in stile metal, i balli matrimoniali in stile di danze popolari. Sono molto efficaci ed evocative le scene (a cura di Niki Psyhogiou), tra cui è sempre d’effetto lo specchio che riflette la sala, e cala come una mannaia implacabile a dividere i morti dai vivi, così come l’amata Euridice (Myrsini Margariti) da Orfeo (Rolando Villazón), appena dopo che quest’ultimo si è malauguratamemte voltato: perde tutto, in questo inevitabile moto di autosabotaggio. Ma il pubblico viene provocato, poiché quando Plutone emette la sua eccezione (Euridice potrà tornare tra i vivi a patto che Orfeo non si volti), le live electronics risuonano dal fondo della platea: non vi voltereste voi forse nell’udire in un luogo buio sussurri indistinti alle spalle?
Lo spettacolo va accettato per la sua natura, ovvero un esperimento scenico e acustico, e con il giusto distacco dalla tradizione. D’altronde non serve demonizzare l’uso dell’amplificazione e dell’elettronica quando questi vengono usati esplorandone le potenzialità espressive, come nell’intensissima scena d’amore tra Plutone (Timos Sirlantizis) e Proserpina (Maria Palaska), in cui l’amplificazione permette loro di sussurrare.
Tra le voci certamente le più efficaci sono quelle gravi, ed attorno ai personaggi principali si dispiegano un gran numero di altri agenti dell’azione: la personificazione della musica (Theodora Baka) e della Speranza (Lenia Safiropoulou), un pastore (Yannis Filias), una ninfa (Irini Bilini), la messaggera (Sophia Patsi), una baccante (Savina Yannatou) e Caronte (Marios Sarantidis). Se questo fosse un Orfeo ordinario si potrebbe obiettare che Rolando Villazón, qui nel ruolo eponimo, canta il barocco monteverdiano come se fosse romanticismo, ma ordinario questo Orfeo non è, e dunque quelli che sarebbero quasi eccessi, non lo sono. Verso il finale c’è un crescendo di intensità in cui viene recuperato il finale “perduto” dell’Orfeo, ovvero quello in cui l’eroe eponimo viene decapitato dalle baccanti. Lo spettacolo termina con un contrasto nettissimo tra gli applausi e le rumorose manifestazioni di dissenso. Per i puristi questo non deve essere stato uno spettacolo facile, ma ha certamente fatto parlare di sé, e sorgere la domanda: può dunque un tempio dell’antico (come è l’opera) parlare al futuro?
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