Torna al ROF l’Adina, una delle opere più rare e misteriose di Rossini
La buona prestazione dei cantanti riscatta una regia frenetica e sovraccarica
Con la farsa Adina Rossini disse addio nel 1818 all’opera buffa. Una farsa – i rossiniani lo sanno bene – è una breve opera adatta a piccoli teatri, perché richiede pochi cantanti, scena unica, piccola orchestra, niente coro (ma per alcuni aspetti Adina è più esigente, perché evidentemente c’era maggiore disponibilità di mezzi). Ma una farsa non è necessariamente farsesca nel senso che questa parola ha ai nostri giorni, anzi esistevano perfino “farse tragiche”. In particolare Adina guarda al genere semiserio, non avendo nessun momento schiettamente comico e avendone alcuni decisamente drammatici, soprattutto verso la conclusione, prima dell'improvviso lieto fine. La regista Rosetta Cucchi ha deciso però di calcare la mano sul farsesco inteso nell’accezione moderna, creando uno spettacolo sovraeccitato e infarcito di gag, che talvolta – non sempre – strappano anche le risate: ma è una comicità datata, nello stile del varietà di mezzo secolo fa. Tutto è molto colorato e animato. Il sipario si alza su un’enorme torta nuziale, talmente enorme da ospitare il serraglio del Califo [sic], che abita al piano terra, mentre alla sua bella schiava Adina è riservato il primo piano. Questa torta-palazzo occupa quasi tutto il palcoscenico e nella parte che resta libera si accalca lo stuolo di mimi e figuranti mobilitati dalla regia - giardinieri, guardie del corpo armate di fucili di plastica, cuochi, eccetera eccetera – di cui nel libretto non si trova traccia e di cui non si sentirebbe il bisogno. Questo bailamme in scena è immotivato e superfluo e non aggiunge nulla all’Adina, anzi rischia di essere nocivo. Bisogna riconoscere tuttavia che la messa in scena - grazie anche ai costumi vivaci e colorati di Claudia Pernigotti e alla fantasiosa scena di Tiziano Santi – ha tenuto sempre desta l’attenzione del pubblico e che anche grazie a questo l’Adina ha avuto un successo vivissimo.
I cantanti hanno servito Rossini come meglio non si potrebbe. Lisette Oropesa, la protagonista, faceva il suo debutto al ROF ma è già una star del Met. Deliziosa ed elegante, sia come attrice che come cantante, non ha avuto difficoltà nella cavatina “Fragolette fortunate”, la pagina relativamente più nota dell’opera, dove tuttavia la sua limpida e morbida voce si induriva un po’ quando doveva scendere al registro centrale, più adatto a un mezzosoprano che a un soprano leggero come lei. Le sue qualità sono apparse in piena luce nel quartetto e nel finale, quando ha incantato sia nei passaggi più leggeri e acrobatici – perfetta la coloratura, morbido ed omogeneo il timbro – sia nelle agilità di forza e nei momenti drammatici. Vito Priante, che impersonava Califo, ha affrontato con perfetto à plomb l’intera gamma stilistica richiesta da questa parte, dallo stile comico a quello serio, passando per distese oasi cantabili e per rapidi sillabati. Debuttante al ROF, il tenore sudafricano Levy Segkapane (Selimo) ha superato con discreta sicurezza le difficoltà e i sovracuti quasi impossibili della sua aria (tratta dal Sigismondo) e quindi gli si possono perdonare il timbro nasale e la carente pronuncia italiana. Sono molto piaciuti nei ruoli minori due giovani formatisi all’Accademia Rossiniana: sono il tenore Matteo Macchioni (Alì, cui spetta un’aria piuttosto impegnativa, presa anch’essa dal Sigismondo) e il baritono Davide Giangregorio (Mustafà).
Non sembrerebbe avere una particolare predisposizione per Rossini il venezuelano Diego Matheuz, che ha diretto in modo corretto ma piatto. Adeguata, seppur senza troppe finezze, la prestazione dell’Orchestra Sinfonica “G. Rossini” e del Coro del Teatro della Fortuna di Fano.
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