Splendido concerto di Elisabeth Leonskaja e del Quartetto Jerusalem alla IUC di Roma
La grande rappresentante della vecchia scuola pianistica russa e il quartetto israeliano hanno eseguito Haydn, Dvorak e Šostakóvič
18 febbraio 2023
di Mauro Mariani
Nel 1993 la pianista russo-georgiana Elizaveta Leonskaja (che avrebbe poi preso la cittadinanza austriaca e il nome Elisabeth) debuttava all’Aula magna della “Sapienza” per la stagione dell’Istituzione Universitaria dei Concerti di Roma. Lo stesso anno a Gerusalemme quattro giovanissimi musicisti (poi qualcuno di loro ha ceduto il posto ad altri, quindi in media sono giovani ancora oggi) decidevano di formare un quartetto, che fece il suo debutto soltanto tre anni dopo, a dimostrazione della serietà e dello scrupolo con cui si sono preparati a tale impegno. A trent’anni esatti di distanza questi cinque musicisti, che appartengono a due generazioni e a due scuole diverse, si sono uniti per suonare insieme in una tournée europea, che includeva un concerto all’Aula Magna: era un ritorno dopo molti anni per la Leonskaja e un debutto per il Quartetto Jerusalem. Poi hanno proseguito, insieme o separatamente, per Firenze, Bologna e Milano.
Il concerto romano iniziava con l’op. 20 n. 5 di Haydn, uno dei sei noti come Quartetti “del sole”: un titolo che deriva dal logo – come diremmo oggi – stampato sul frontespizio della prima edizione ma che si attaglia perfettamente al luminoso splendore dei quartetti di questa raccolta. Per l’ascoltatore attento questo Quartetto in fa minore è una successione ininterrotta di idee sorprendenti, come tutta la musica di Haydn, compositore razionale e allo stesso tempo - al contrario di quel che si crede - imprevedibile. Nel primo movimento ricava sviluppi sempre diversi da un semplicissimo materiale tematico e infine stupisce con una serie di audaci modulazioni nella coda. Nel secondo s’intravede una precoce anticipazione del futuro scherzo: il ritmo scandito e meccanico del minuetto non è mai molto marcato, anzi spesso Haydn lo “dimentica” del tutto, mentre la tonalità minore conferisce ombreggiature insolite a questa danza settecentesca. Il Finale è una fuga a due soggetti, impensabile fino a poco prima, quando il quartetto era sinonimo di un genere galante e leggero come il divertimento. Il Jerusalem Quartet sfoggia un suono pieno, senza ciprie e manierismi pseudosettecenteschi estranei a Haydn, e mantiene sempre un equilibrio molto attento e curato tra i quattro strumenti, con appena un leggera preminenza del primo violino, com’è giusto che sia per quel primo periodo della storia del quartetto.
Nel Quartetto n. 10 op. 96 “Americano” di Dvorák - il più famoso dei quattordici scritti dal compositore ceco, ma forse non il suo capolavoro nel genere - il suono dei quattro archi israeliani si arricchisce di una splendida gamma di colori per cogliere tutto il sapore di temi che riecheggiano o piuttosto reinventano i canti dei nativi americani, gli spirituals degli afroamericani e la musica popolare dei coloni europei. E allo stesso tempo è evidenziata la densità di un tessuto musicale ispirato al modello brahmsiano.
Si cambiava ancora secolo col terzo brano, il Quintetto op. 57 di Šostakóvič. Al Quaretto Jerusalem si aggiungeva Elisabeth Leonskaja, erede della grande scuola pianistica russa del passato, poiché ha avuto i consigli e l’esempio di Sviatoslav Richter - di cui è stata amica e stretta collaboratrice: hanno anche suonato insieme in duo – e di Šostakóvič stesso. Questo Quintetto del 1940 è una delle prime opere in cui il compositore si rivolse a nuovi ideali di chiarezza e di semplicità dopo lo sperimentalismo degli anni giovanili. La Leonskaja e i quattro archi gli danno un suono asciutto e freddo e allo stesso tempo pieno e robusto, che ricorda il disco realizzato nel 1955 dallo stesso Šostakóvič e dal Quartetto Beethoven. Anche i tempi sono simili a quelli tale storica incisione, in particolare nello Scherzo, che in partitura è indicato Allegretto ma che nella loro esecuzione diventa progressivamente una specie di ronda diabolica in tempo Allegro assai.
In modo uguale e contrario l’Andante con moto del secondo movimento del Quintetto n. 2 op. 81 di Dvorak diventa un Adagio assai, che ne esalta la malinconia struggente. Era il bis con cui i cinque protagonisti di questo splendido concerto hanno risposto ai calorosi applausi del pubblico della IUC.
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