A spasso con Daniel
“One day in life”: un progetto fra musica e spazi urbani di Daniel Liebeskind per l’Alte Oper di Francoforte
Recensione
classica
Prendete un archistar come Daniel Liebeskind. Chiedetegli di scegliere dei luoghi o piuttosto delle dimensioni del quotidiano di una città. E poi invitatelo a pensare a un concerto per ognuno di quei luoghi. Era questa l’idea alla base di “One day in life”, progetto promosso dall’Alte Oper di Francoforte, non semplicemente musicale ma con l’ambizione di far entrare per un giorno nella vita di una città e di chi la fa vivere. Il tutto fra sabato pomeriggio e una domenica pomeriggio di mezza primavera. Insomma, un giorno nella vita di una città secondo Daniel Liebeskind, celebre architetto statunitense di origini polacche, autore di edifici come l’One World Trade Center a New York o il Museo Ebraico di Berlino.
Il risultato? Ogni due ore un concerto in ognuno di quei 18 luoghi sparsi su tutta la superficie della città (e anche sotto) fino a notte inoltrata e poi di nuovo da dopo la colazione fino a sera. Ogni luogo una dimensione, ogni spettatore un percorso possibile. E quindi un intreccio di percorsi che disegna la trama del tessuto urbano. Una trama che lo stesso Liebeskind ha disegnato in un grande pannello posto davanti all’Alte Oper, l’austero teatro d’opera della città sul Meno, sventrato durante la guerra. Magari per guardare a Francoforte in modo diverso dalla metropoli tascabile di Mainhattan o della proterva capitale finanziaria di Bankfurt. Dalla guerra cominciava il nostro personale percorso, dall’Hochbunker, bunker di superficie fatto costruire nel 1942 da progionieri francesi sulle ceneri (letteralmente) della più grande e sontuosa sinagoga della città, in quell’Ostend un tempo centro della ricca comunità sefardita che animava la città. Negli scabri e angusti spazi del bunker una mostra rievocava la vitalità di quella comunità e il suo contributo cruciale alla vita culturale e musicale della città prima dello sterminio. “Memoria” era la dimensione che ispirava il programma aperto con le nenie delle “Three songs without words” di Paul Ben-Haim “cantate” dal violino di Peter Zelienka, continuava con lo sperimentalismo “degenerato” della “Suite per pianoforte op. 25” di Arnold Schönberg suonata da Maria Ollikainen, e si chiudeva con “Ricorda cosa ti hanno fatto a Auschwitz” di Luigi Nono. “Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”, disse Adorno. Nella fredda penombra della sala, echeggiavano i frammenti di suoni, di lamenti lontani di una massa informe di voci su un informe agglomerato orchestrale. E poi gesti sonori violenti che si chiudevano nel silenzio.
La seconda tappa ci portava alla sala operatoria del vicino Ospedale del Santo Spirito (Heiliger Geist), il più antico della città con oltre 750 anni di storia. “Corpo” è la dimensione che ispira il programma, in questo caso composto con un certo humor. La “Suite n. 7 in mi minore” dai “Pièces de viole. Livre V” di Marin Marais con la stravaganza barocca del “Tableau de l’Opération de la Taille”, pezzo “chirurgicamente” imitativo sull’estrazione di un calcolo alla vescica. Agli accordi barocchi della viola da gamba di Matthias Bergmann e della tiorba di Vanessa Heinisch rispondono “per simpatia” quelli delle improvvisazioni al sitar di Ashok Nair, seduto su una lettiga proprio sotto alla lampada che illumina corpi sezionati.
La terza tappa ci portava nella periferia nordest, nella più grande caserma dei vigili del fuoco della città. “Simulazione” era la dimensione scelta per il concerto nel Centro di addestramento. Simulati erano gli ambienti urbani ricostruiti nel grande capannone come in un set cinematografico: facciate di case, di negozi, porte e finestre sfregiate dal fuoco. Da una finestra del terzo piano si scorgevano a malapena Aglaya Gonzáles al violino e Kohei Ogata al liuto. Suonavano due delle quindici “Sonate del rosario” di Heinrich Ignaz Franz Biber: un mistero gioioso, l’annunciazione, e uno doloroso, la crocifissione. Vita e morte. E destino, che bussava alla porta con le celebri quattro note della più celebre delle sinfonie di Beethoven, la Quinta. Il primo movimento lo suonava Christian Fritz al pianoforte sistemato nel portico (simulato) della G. Eins Logistik. E si chiudeva con un salvataggio miracoloso dalle fiamme: quello del “Canto dei tre giovani nella fornace” di Karlheinz Stockhausen per nastro magnetico, rievocazione dell’episodio biblico del libro del profeta Daniele.
Di nuovo in città per la quarta tappa nella Deutsche Nationalbibliothek, istituzione “bicefala” (l’altra testa è a Lipsia) che raccoglie tutti i libri di area germanofona: 11 milioni di volumi raccolti su 360 km di scaffali, che hanno spazio per altri 7 milioni. Mentre la Sala di lettura al primo piano offriva una “Traduzione” con un doppio Schubert secondo i pianisti Pierre Laurent Aimard e Jean-Sélim Abdelmoula, noi preferivamo il labirinto sotterraneo dei depositi per il “Testo” con il Monteverdi del Quinto libro dei “Madrigali”, interpretati dai cinque vocalisti di Vocal Connection chiusi fra la parete di fondo e scaffali ancora vuoti. Dalla parte opposta della sala, in quasi contemporanea le “Voices and piano” di Louis Ablinger, curioso esperimento di accompagnamento “prosodico” al pianoforte (Daniel Lorenzo) delle voci registrate di Brecht, Apollinaire e Heidegger fra gli altri.
L’ultima tappa si consumava a mezzanotte nella grande piscina di Rebstock, una delle più frequentate in Germania con oltre 600 mila presenze annuali. Costruita fra il 1979 e il 1982 e oggi integrata in uno dei nuovi quartieri a ovest della città, poco distante dall’area fieristica. “Gravità” era la dimensione scelta per un programma che alternava frammenti della “Water music” di Händel, suonati su uno stretto passaggio fra le due grandi vasche dalla Vox Orchester diretta da Lorenzo Ghirlanda, con le cinque parti del “De profundis” di Sofia Guibadulina eseguite da Stefan Hussong al bajan sulla riva. Il pubblico, certo non quello compassato dei concerti tradizionali, trovava posto sulle tribune e sulle sdraio sistemate lungo i bordi della vasche. Dopo il concerto bagno libero fino alle 2 del mattino. I più resistenti riprendevano l’indomani con un altro menu a scelta fra il “Movimento” sui tram della città, la “Necessità” nel Municipio cittadino, la “Conoscenza” al 38° piano della recente Opernturm, il “Testamento” nell’Istituto Sigmund Freud, la “Fede” nel popolare quartiere di Gallus, il “Lavoro” nel deposito dei tram di Gutleut, l’ “Incontro” all’Alte Oper e la “Volontà” che concludeva la lunga passeggiata cittadina nel massimo stadio cittadino. Anche Daniel Liebeskind partecipava entusiasta alla sua idea musicale di città.
Il risultato? Ogni due ore un concerto in ognuno di quei 18 luoghi sparsi su tutta la superficie della città (e anche sotto) fino a notte inoltrata e poi di nuovo da dopo la colazione fino a sera. Ogni luogo una dimensione, ogni spettatore un percorso possibile. E quindi un intreccio di percorsi che disegna la trama del tessuto urbano. Una trama che lo stesso Liebeskind ha disegnato in un grande pannello posto davanti all’Alte Oper, l’austero teatro d’opera della città sul Meno, sventrato durante la guerra. Magari per guardare a Francoforte in modo diverso dalla metropoli tascabile di Mainhattan o della proterva capitale finanziaria di Bankfurt. Dalla guerra cominciava il nostro personale percorso, dall’Hochbunker, bunker di superficie fatto costruire nel 1942 da progionieri francesi sulle ceneri (letteralmente) della più grande e sontuosa sinagoga della città, in quell’Ostend un tempo centro della ricca comunità sefardita che animava la città. Negli scabri e angusti spazi del bunker una mostra rievocava la vitalità di quella comunità e il suo contributo cruciale alla vita culturale e musicale della città prima dello sterminio. “Memoria” era la dimensione che ispirava il programma aperto con le nenie delle “Three songs without words” di Paul Ben-Haim “cantate” dal violino di Peter Zelienka, continuava con lo sperimentalismo “degenerato” della “Suite per pianoforte op. 25” di Arnold Schönberg suonata da Maria Ollikainen, e si chiudeva con “Ricorda cosa ti hanno fatto a Auschwitz” di Luigi Nono. “Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”, disse Adorno. Nella fredda penombra della sala, echeggiavano i frammenti di suoni, di lamenti lontani di una massa informe di voci su un informe agglomerato orchestrale. E poi gesti sonori violenti che si chiudevano nel silenzio.
La seconda tappa ci portava alla sala operatoria del vicino Ospedale del Santo Spirito (Heiliger Geist), il più antico della città con oltre 750 anni di storia. “Corpo” è la dimensione che ispira il programma, in questo caso composto con un certo humor. La “Suite n. 7 in mi minore” dai “Pièces de viole. Livre V” di Marin Marais con la stravaganza barocca del “Tableau de l’Opération de la Taille”, pezzo “chirurgicamente” imitativo sull’estrazione di un calcolo alla vescica. Agli accordi barocchi della viola da gamba di Matthias Bergmann e della tiorba di Vanessa Heinisch rispondono “per simpatia” quelli delle improvvisazioni al sitar di Ashok Nair, seduto su una lettiga proprio sotto alla lampada che illumina corpi sezionati.
La terza tappa ci portava nella periferia nordest, nella più grande caserma dei vigili del fuoco della città. “Simulazione” era la dimensione scelta per il concerto nel Centro di addestramento. Simulati erano gli ambienti urbani ricostruiti nel grande capannone come in un set cinematografico: facciate di case, di negozi, porte e finestre sfregiate dal fuoco. Da una finestra del terzo piano si scorgevano a malapena Aglaya Gonzáles al violino e Kohei Ogata al liuto. Suonavano due delle quindici “Sonate del rosario” di Heinrich Ignaz Franz Biber: un mistero gioioso, l’annunciazione, e uno doloroso, la crocifissione. Vita e morte. E destino, che bussava alla porta con le celebri quattro note della più celebre delle sinfonie di Beethoven, la Quinta. Il primo movimento lo suonava Christian Fritz al pianoforte sistemato nel portico (simulato) della G. Eins Logistik. E si chiudeva con un salvataggio miracoloso dalle fiamme: quello del “Canto dei tre giovani nella fornace” di Karlheinz Stockhausen per nastro magnetico, rievocazione dell’episodio biblico del libro del profeta Daniele.
Di nuovo in città per la quarta tappa nella Deutsche Nationalbibliothek, istituzione “bicefala” (l’altra testa è a Lipsia) che raccoglie tutti i libri di area germanofona: 11 milioni di volumi raccolti su 360 km di scaffali, che hanno spazio per altri 7 milioni. Mentre la Sala di lettura al primo piano offriva una “Traduzione” con un doppio Schubert secondo i pianisti Pierre Laurent Aimard e Jean-Sélim Abdelmoula, noi preferivamo il labirinto sotterraneo dei depositi per il “Testo” con il Monteverdi del Quinto libro dei “Madrigali”, interpretati dai cinque vocalisti di Vocal Connection chiusi fra la parete di fondo e scaffali ancora vuoti. Dalla parte opposta della sala, in quasi contemporanea le “Voices and piano” di Louis Ablinger, curioso esperimento di accompagnamento “prosodico” al pianoforte (Daniel Lorenzo) delle voci registrate di Brecht, Apollinaire e Heidegger fra gli altri.
L’ultima tappa si consumava a mezzanotte nella grande piscina di Rebstock, una delle più frequentate in Germania con oltre 600 mila presenze annuali. Costruita fra il 1979 e il 1982 e oggi integrata in uno dei nuovi quartieri a ovest della città, poco distante dall’area fieristica. “Gravità” era la dimensione scelta per un programma che alternava frammenti della “Water music” di Händel, suonati su uno stretto passaggio fra le due grandi vasche dalla Vox Orchester diretta da Lorenzo Ghirlanda, con le cinque parti del “De profundis” di Sofia Guibadulina eseguite da Stefan Hussong al bajan sulla riva. Il pubblico, certo non quello compassato dei concerti tradizionali, trovava posto sulle tribune e sulle sdraio sistemate lungo i bordi della vasche. Dopo il concerto bagno libero fino alle 2 del mattino. I più resistenti riprendevano l’indomani con un altro menu a scelta fra il “Movimento” sui tram della città, la “Necessità” nel Municipio cittadino, la “Conoscenza” al 38° piano della recente Opernturm, il “Testamento” nell’Istituto Sigmund Freud, la “Fede” nel popolare quartiere di Gallus, il “Lavoro” nel deposito dei tram di Gutleut, l’ “Incontro” all’Alte Oper e la “Volontà” che concludeva la lunga passeggiata cittadina nel massimo stadio cittadino. Anche Daniel Liebeskind partecipava entusiasta alla sua idea musicale di città.
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