Se il teatro ride di se stesso
A Piacenza applausi per il nuovo allestimento de Le convenienze ed inconvenienze teatrali di Donizetti
Mettere in scena un testo operistico come Le convenienze ed inconvenienze teatrali di Gaetano Donizetti, che abbiamo seguito venerdì scorso in un nuovo allestimento proposto dal teatro municipale di Piacenza, significa confrontarsi con una doppia sfida, ma che è tale solo in apparenza.
Da un lato, infatti, l’originale farsa ideata dal compositore bergamasco per il Teatro Nuovo di Napoli nel 1827 – e poi rivista per la ripresa nello stesso teatro del 1831 – offre una struttura drammaturgica che, per quanto semplice e “classica” – sappiamo infatti come il profumo della satira operistica si respiri fin dai tempi del Teatro alla moda di Benedetto Marcello – rimane fresca e, di per sé, autonomamente compiuta. Dall’altro lato, ogni intervento in un’ottica di attualizzazione trova un naturale sbocco in quel giuoco di rimandi e riferimenti che, estrapolati dalla contemporaneità contingente della narrazione originaria, si presta a una contestualizzazione la più varia e fantasiosa possibile.
Ma questo agile lavoro di teatro musicale donizettiano rimane comunque materia da trattare con attenzione, per non rischiare di banalizzare una leggerezza di fondo che, assieme a un certo gusto per le parodie stilistico-musicali – godibilissimi certi tratteggi in stile barocco o rossiniano – appare quale elemento essenziale di questa partitura.
Un rischio che in questa occasione pare essere stato scongiurato grazie alla vivace affinità di intenti condivisa tra la lettura musicale spigliata di Giovanni Di Stefano alla guida dell’Orchestra Filarmonica Italiana, e la regia di Renato Bonajuto, efficacemente leggera nel gestire un palcoscenico abitato dalle scene funzionali di Danilo Coppola e dalle luci di Michele Cremona, dove i personaggi si muovevano con fresca naturalezza vestiti ora con vivace eleganza ora con surreale ironia dai costumi di Artemio Cabassi. Un contesto nel quale si è fatto apprezzare anche l'innesto delle coreografie firmate da Riccardo Buscarini e interpretate dai danzatori dell’Ensemble Capital Ballet con leggera simpatia.
Un impianto che ha seguito il filo rosso rappresentato dalla lettura drammaturgica attualizzante di Alberto Mattioli il quale, oltre a sparpagliare nel testo riferimenti a personaggi (Bartoli, Netrebko, Gheorghiu) e a usi e costumi (i social, i follower) del nostro tempo, si autocita con discreta eleganza come il giornalista che ha in testa due cose: “Verdi e i gatti”.
Così momenti come le arie di baule di Dorotea “Con tromba guerriera” dal Lucio Silla di Händel, e quella di Corilla “Arpa gentil” da Il viaggio a Reims di Rossini, si sono affiancati a parodie più godibilmente originali come la caricatura dell’aria di Desdemona “Assisa appiè d’un salice” dall’Otello dello stesso Rossini, divenuta in questa pagina donizettiana “Assisa a piè d’un sacco” per la voce maschile del ruolo en travesti al contrario di Mamma Agata.
A incarnare con bell’impegno i diversi personaggi abbiamo quindi trovato la simpatia del baritono Marco Filippo Romano, qui al debutto proprio nel ruolo di Mamma Agata, la voce spigliata del soprano Giuliana Gianfaldoni nei panni di Corilla, l’adeguato consorte Procolo interpretato da Nicolò Donini, il solido mezzosoprano scambiato per controtenore di Silvia Beltrami (Dorotea). Poi ancora Paola Leoci (Luigia, figlia di Mamma Agata), i sicuri Matteo Desole (Guglielmo, il tenore tedesco) e Andrea Vincenzo Bonsignore (Biscroma, il direttore d’orchestra), oltre a Stefano Marchisio (Prospero, il regista), Dario Giorgelé (il Sovrintendente) e Juliusz Loranzi (l’Ispettore).
Un spettacolo nel complesso piacevole, insomma, che ha meritato i convinti applausi rivolti alla fine dal pubblico presente a tutti gli artisti impegnati. Unica perplessità la presenza come ospite a sorpresa di Iva Zanicchi, il cui intervento ha interrotto l’azione per qualche minuto mentre, se proprio necessario, poteva essere inserito come cameo in una qualche forma drammaturgicamente più organica. Ma tant’è.
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