Schumann all’antica
Si chiude la 42ª stagione di Bologna Festival proponendo una “Maratona Schumann” in tre tappe di straordinaria qualità artistica e intensità emotiva, con Faust, Melnikov e compagni
La violinista Isabelle Faust non è nuova a “programmi fiume” e a cicli di concerti tematici, ospitati sempre con grande passione da Bologna Festival e accolti con particolare affetto dal suo pubblico. Dopo le Sonate e Partite bachiane in solitaria di due anni fa, ecco un ricchissimo percorso schumanniano distribuito su tre concerti nella stessa giornata, in compagnia di quattro superbi colleghi: il fido Alexander Melnikov al fortepiano, presente in quasi tutti i brani, e i tre archi Anne Jean-Guihen Queyras (violoncello), Antoine Tamestit (viola), Katharina Schreiber (violino) in varia alternanza. Si è cominciato a mezzogiorno con le coppie strumentali (Fantasiestücke per violoncello e pianoforte, Märchenbilder per viola e pianoforte, Sonata n. 1 per violino e pianoforte), proseguendo alle ore 16 con il secondo Trio e il primo Quartetto d’archi, per concludere alle 21 con l’esuberante Quartetto con pianoforte op. 47 e lo splendente Quintetto con pianoforte op. 44.
L’esperienza d’ascolto di questi ultimi è stata letteralmente straordinaria. Il fortepiano Pleyel del 1848 e le corde di budello montate dagli archi (ma con archetto moderno) riconducevano Schumann a sonorità arcaiche, che a malapena siamo abituati ad ascoltare (e a tollerare) in Beethoven e nella generazione precedente. Eppure, dopo i primi minuti di ambientazione acustica, il timbro un po’ sordo della tastiera ottocentesca, ma particolarmente tagliente in zona acuta, finiva per suonare in tutta la sua normalità sotto quegli archi, capace di catapultarci al tempo di Schumann invece che trasportare Schumann verso di noi.
Ma non sarebbero state sufficienti le peculiarità di quegli strumenti senza l’abilità di quegli strumentisti. Sembrava davvero di sentire un esecutore unico, come se quegli artisti non avessero fatto altro nella vita che suonare quotidianamente uniti. Eppure, nell’insieme, ognuno riusciva a mantenere ben distinta la propria peculiarità: il suono luminoso della Faust, la perfezione meccanica della Scheiber, il colore denso di Tamestit, la trascinante cantabilità di Queyras, il tocco morbidissimo di Melnikov. E quando il suono di tutti si faceva piano e, ancor più, pianissimo, allora si compiva il miracolo di un unico suono diafano, trasparente, mai esangue.
Il pubblico, numericamente in crescita di concerto in concerto, è riuscito dal canto suo a raggiungere livelli di silenzio d’una intensità sconosciuta ai frequentatori dell’Auditorium Manzoni, fattosi improvvisamente piccolo come lo spazio di un salotto privato. Ed ogni commento a parole risultava allora insufficiente.
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