A Santa Cecilia l’ottava di Šostakóvič, una sinfonia di guerra

In programma anche il secondo Concerto di Liszt, messo in nuova luce dalla splendida interpretazione del pianista Francesco Piemontesi, del direttore Juraj Valčuha e dell’orchestra romana

Valčuha e Piemontesi  (Foto Musacchio & Ianniello)
Valčuha e Piemontesi (Foto Musacchio & Ianniello)
Recensione
classica
Roma, Parco della Musica, Sala Santa Cecilia
Valčuha e Piemontesi
02 Marzo 2023 - 04 Marzo 2023

Da quando nel 2012 ha diretto la Nona di Beethoven - sostituendo Georges Prêtre, che a causa dell’età non sarebbe più tornato a Roma - Juraj Valčuha è entrato a far parte di quella ristretta cerchia di direttori che salgono ogni anno sul podio dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, con cui è andato anche in tournée in Italia e all’estero. E di anno in anno è apparso sempre più convincente, arricchendo la padronanza della tecnica direttoriale evidente fin dall’inizio con un sempre maggiore approfondimento interpretativo, ed ora, all’età di quarantasette anni, ha raggiunto una splendida maturità.

A giudicare da quest’ultimo suo concerto, orchestra e direttore hanno raggiunto una perfetta sintonia, che veniva messa in particolare risalto dalla Sinfonia n. 8 di Dmitrij Šostakóvič, le cui sonorità possenti, scintillanti, marcate, taglienti esaltano il virtuosismo dell’orchestra romana più dell’apparentemente molto più semplice Mozart. Oggi Šostakóvič è tra i compositori che esercitano la maggiore attrattiva sul pubblico, ma limitatamente ad alcune sue opere, infatti la maggior parte delle sue quindici sinfonie viene eseguita molto raramente e tra queste è proprio l’ottava, che torna nei programmi dell’Accademia ogni vent’anni circa, forse perché non concede un solo minuto di ascolto rilassato.

È una sinfonia “di guerra”, composta dopo la battaglia di Stalingrado, che fu una grande vittoria per i russi ma anche un’orrenda carneficina per entrambe le parti. Il regime sovietico si sarebbe aspettato una sinfonia retoricamente tripudiante ed ottimistica per festeggiare la vittoria ma ebbe una musica di agghiacciante tragicità, che evoca la guerra con una serie di marce militari, non trionfalistiche ma o sinistramente grottesche o traboccanti di violenza spietata, aspra, inaudita: questi due caratteri si alternano - particolarmente nel secondo, terzo e quinto movimento - come due facce di una stessa medaglia, perché la guerra è tanto insensata ed assurda quanto crudele ed atroce. I due movimenti lenti - il primo e il quarto - scorrono apparentemente placati e senza drammi ma sono percorsi da una sotterranea tensione e privi di una sia pur minimo spiraglio di luce e di speranza. Šostakóvič stesso definì la settima e l’ottava sinfonia il suo Requiem, ma l’ottava è ancor più cupa, funerea e disperata della settima ed ha anche una più alta e compatta qualità musicale, senza i dislivelli della settima.

L’ascoltatore - come già detto - non ha un attimo di tregua e di rilassamento, ma ben maggiore è la fatica che deve affrontare l’orchestra in quest’ora di musica, estremamente impegnativa dall’inizio alla fine sia per le prime parti (particolarmente i legni, che hanno molti e non semplici assolo) sia per le varie sezioni (specialmente ottoni, percussioni e naturalmente violini primi). Valcuha ha guidato magistralmente la smisurata orchestra in questa densa e complessa partitura, estraendo dalla magmatica scrittura di Šostakóvič sia ‘piano’ estremamente tesi sia ‘fortissimo’ spinti fino al limite sopportabile dall’orecchio, ma sempre perfettamente controllati e limpidi. E ha trovato il punto d’equilibrio tra partecipazione emotiva e distacco oggettivo novecentesco. La sintonia tra Valcuha e l’orchestra è tale che non è possibile dire che questa splendida esecuzione sia principalmente merito dell’uno o dell’altra: semplicemente, non sarebbe stata possibile senza l’eccezionale concorso di entrambi.

L’altro brano in programma era il Concerto n. 2 di Franz Liszt, anch’esso non molto frequente: la prima esecuzione nei concerti di Santa Cecilia avvenne quasi un secolo dopo la prima assoluta ma, come per farsi perdonare il ritardo, il solista era Vladimir Horowitz. Chissà quali prodigi avrà ricavato dal pianoforte il pianista ucraino ma il pianista di questa esecuzione, lo svizzero Francesco Piemontesi, non ci ha dato tempo e modo di rimpiangerlo troppo, a partire dai grandiosi e allo stesso tempo raccolti e assorti arpeggi con cui il pianoforte fa la sua entrata in scena fino alla travolgente e magniloquente conclusione. Piemontesi è veramente riuscito “a produrre il suono di cento strumenti” col suo pianoforte, come scrisse Liszt in una lettera citata nel programma di sala di Luca Ciammarughi: “arpeggi come le arpe, note tenute come gli strumenti a fiato, pizzicati come gli archi, effetti sinfonici dalle infinite combinazioni armoniche e ritmiche”. Per far questo ci vogliono tecnica agguerritissima e dita di acciaio: Piemontesi le ha – ma questo non è raro tra i pianisti delle giovani generazioni - e soprattutto ha offerto un’interpretazione studiata e approfondita, ricca e complessa di questo pezzo del 1857, che generalmente viene considerato il fratello minore dell’altro concerto per pianoforte e orchestra di Liszt ma che ora si è rivelato un capolavoro della musica romantica.

È un romanticismo non sentimentale - sebbene non manchino momenti di intimo lirismo, come il duetto tra il pianoforte e il violoncello dell’ottimo Luigi Piovano - ma visionario e iperbolico, che lancia una sfida ad ogni limite materiale sia dell’uomo che del suo strumento, in un’esaltazione superoministica che lascia stupefatto l’ascoltatore. Romantica è anche la forma, libera e apparentemente improvvisativa ma in realtà attentamente calcolata e basata sul ritorno di alcuni leitmotiv, che tengono insieme il continuo sbocciare degli episodi molto vari e apparentemente irrelati in cui si suddivide questo concerto, che formalmente consiste di un unico, ampio e frastagliato movimento. L’interpretazione molto asciutta di Piemontesi è priva di rubato e di altre concessioni al facile romanticismo sentimentaleggiante e mette in rilievo la modernità del pianismo di Liszt, lasciando affiorare chiare anticipazioni di Skrjabin, Bartok e Prokofiev, così come il bis concesso a furor di popolo (ci riferiamo alla sera di venerdì) ha rivelato come l’influsso di Liszt fosse ancora forte nei Feux d’artifice di Debussy. Anche in Liszt Valcuha e l’orchestra sono stati superbi, in totale sintonia col solista.  

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