San Francesco o della natura
Quasi un happening il “Saint François d’Assise” di Olivier Messiaen allestito da Anna-Sophie Mahler dalla Staatsoper di Stoccarda
Autentica summa del particolare percorso artistico di Olivier Messiaen, il Saint-François d’Assise è una lunga opera che è anche un “capolavoro di purezza che risponde alla sue proprie leggi e non somiglia a niente”, per rubare le parole di Peter Sellars che allestì il lavoro a Salisburgo nel 1992. Le oltre quattro ore di musica scritte per un organico importante fatto di circa 120 orchestrali e uno strumentario insolito (ben tre sono le onde Martenot richieste) oltre che vasto, soprattutto nella gamma delle percussioni. Se è già una grande sfida per gli esecutori, non lo è da meno per l’attenzione richiesta allo spettatore: del “santo più simile a Cristo”, nella sua opera Messiaen omette quasi del tutto la ricca aneddotica su Francesco per concentrare il rigoroso racconto quasi esclusivamente attorno all’ascesi mistica del protagonista, delegando alle figure di contorno le poche divagazioni in territori meno austeri.
La nuova produzione tenuta a battesimo dalla Staatsoper di Stoccarda in finale di stagione tenta una strada inedita rispetto ai non numerosissimi allestimenti dell’opera di Messiaen visti negli ultimi quarant’anni, dopo cioè il battesimo del lavoro all’Opéra di Parigi, allora governata da Massimo Bogiankino, nel 1983 sotto la direzione di Seiji Ozawa, la regia di Sandro Sequi e le scene e i costumi di Giuseppe Crisolini Malatesta sostanzialmente fedeli alle dettagliate prescrizioni sceniche del compositore. Più che sulla dimensione religiosa, comunque imprescindibilmente legata alla concezione di Messiaen, la regista Anna-Sophie Mahler mette in rilevo soprattutto la dimensione terrena e in particolare l’amore per la natura di Francesco, tema evidentemente più vicino alla sensibilità e al dibattito contemporaneo. La vera novità è soprattutto costruire l’opera come un cammino, anche in senso letterale, abbandonando la dimensione strettamente teatrale circoscritta al perimetro di uno spazio deputato al rito dell’opera. Le tre scene del primo atto (“La Croce”, “Le Laudi” e “Il bacio al lebbroso”) si svolgono sul palcoscenico dell’Opernhaus con l’orchestra sistemata sul palcoscenico dietro a un sipario semitrasparente che mostra proiezioni video (di Georg Lendorff) con forme di vita animali e gli interpreti vocali costretti sul proscenio per un’azione scenica ridotta all’essenziale. Simbolicamente abbandonando gli indumenti “terreni” (qui abiti neri da concerto), Francesco e i confratelli vestono semplici costumi fatti di patchwork di vecchie felpe con cappuccio riciclate dai costumisti Katrin Connan e Pascale Martin e indossano sandali o sneakers buoni per il cammino che li attende. Anche il lebbroso, guarito miracolosamente dal Santo, si spoglia della nuvola di stoffa grigia che ne occulta le forme umane riprendendo la sua dimensione civile in un sobrio abito nero.
Nel secondo atto il pubblico abbandona temporaneamente il teatro: un uccello, fra quelli che popolano l’universo ornitologico di Messiaen, accompagna gli spettatori organizzati in piccoli gruppi fino alle alture del parco di Killesberg, nelle quali il secondo atto dell’opera. Nella prima scena (“L'Angelo viaggiatore”) ogni spettatore, dotato di un lettore MP3 è invitato a fare una esperienza di ascolto di una registrazione realizzata con gli stessi interpreti della produzione del teatro e di riflessione strettamente individuale, nella natura del parco, abitata da angeli/insetto dai luccicanti costumi seminascosti fra la vegetazione. Le due scene successive (“L’Angelo musicante” e “La predica agli uccelli”), le più varie dal punto di vista musicale, hanno invece luogo nella grande arena all’aperto nella parte più alta del parco con l’orchestra, coro e interpreti presenti. Come nel passaggio appena precedente, anche qui la scenografia è quella offerta dalla natura circostante con solo una grande passerella piazzata al centro dell’anfiteatro, davanti all’orchestra. Da questa Francesco si rivolgerà alla comunità degli uccelli, il cui canto, con taglio didattico, viene identificato individualmente attraverso la sagoma riprodotta in cartelli portati in processione da una pattuglia di figuranti e da apposite didascalie azzurre nello schermo dei sovratitoli. Un’ottima lezione di ornitologia.
È il tramonto quando il pubblico viene ricondotto all’Opernhaus per l’ultimo atto, eseguito dopo un frugale spuntino “di comunità” offerto a tutti gli spettatori. Le ultime due scene (“Le stigmate” e “La morte e la nuova vita”) vengono realizzate convenzionalmente con l’orchestra in buca e i cantanti e il coro sul palcoscenico, che la scenografa Katrin Connan ha allestito come una scatola nera con la copertura di un soffitto riflettente fortemente inclinato, come nella celebre Traviata degli specchi di Svoboda. La chiave resta austera ma cede a qualche effetto spettacolare con il coro riflesso sulla superficie specchiante che letteralmente striscia in scena fin là abitata dal solo Francesco. Una tela gialla dalla forma organica copre lentamente il palcoscenico e prepara la metamorfosi (in senso kafkiano) di Francesco che, come suggeriscono le proiezioni, abbandona lo stato larvale per trasformarsi in libellula e librarsi finalmente libero nell’alto della scena. Anche per l’ultimo atto, quello nel quale si manifesta in maniera più decisa l’afflato religioso di Messiaen, Anna-Sophie Mahler rifiuta qualsiasi simbolo religioso per insistere sulla metafora naturalistica e, quasi in contrasto con la sostanza spirituale dell’ispirazione del compositore, sulla teatralità della lode al Creatore del radioso finale.
È superfluo dire che questo Saint-François d’Assise è soprattutto un “happening” prima ancora che uno spettacolo teatrale e, come tale, pone sfide serie a tutti gli esecutori ma anche al pubblico per le condizioni di ascolto che contraddicono la sostanza intimamente meditativa del lavoro. Ciò detto, va dato atto a tutte le numerose forze messe in campo dalla Staatsoper di Stoccarda – compresi i molti tecnici e il piccolo esercito di figuranti coinvolti in scena e sul campo per risolvere i non banali problemi logistici – di aver reso davvero il massimo nelle condizioni date. Quanto alla realizzazione musicale guidata con braccio saldissimo da Titus Engel, direttore d’orchestra abituato alle imprese impossibili, si fa apprezzare soprattutto per la tenuta (lo spettacolo dura oltre 8 ore comprese le due lunghe pause) e per il rilievo dato al peculiare linguaggio compositivo “avanguardistico” di Olivier Messiaen. In tal senso, il virtuosistico ultimo quadro del secondo atto è sembrato il più riuscito per il notevole spessore tecnico dei fiati e delle percussioni della Staatsorchester di Stoccarda. Nel finale, invece, è lo Staatsopernchor preparato da Manuel Pujol, che si impone con un crescendo vocale irresistibile. Il protagonista Michael Mayes è un robusto Saint François che non si distingue per particolari qualità vocali né profondità spirituale, mentre nel gruppo dei confratelli spiccano soprattutto Danylo Matviienko come Frère Léon ed Elmar Gilbertsson come Frère Massée. Buone le prove di Beate Ritter, che è un angelo un po’ troppo immateriale, e di Moritz Kallenberg, un lebbroso di partecipata sofferenza.
Alla prima pubblico folto e curioso (e ben attrezzato per affrontare la calura estiva), arrivato in forma e più o meno al completo fino alla fine della lunga e insolita maratona musicale, festeggiata alla fine con lunghi applausi e sonore ovazioni.
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