Ravenna apre con Muti e i "suoi" Wiener
Dal Ravenna Festival prende il via la breve tournée italiana di Riccardo Muti con i Wiener Philharmoniker
Nell’oltre mezzo secolo di carriera, non sono certo mancate le occasioni importanti e fin storiche per Riccardo Muti; ma questi dieci giorni di metà primavera resteranno tra i più emblematici del suo rapporto continuo e indissolubile con la mitica orchestra dei Wiener Philharmoniker, un rapporto iniziato nel 1971, rinsaldatosi attraverso oltre 500 concerti pubblici e culminante il 7 maggio scorso con la riproposta al Musikverein di Vienna della Nona Sinfonia di Beethoven nel 200º anniversario della sua prima esecuzione: un direttore italiano preferito a tanti austriaci o tedeschi possibili, come ha sottolineato orgoglioso lo stesso Muti nei mesi di avvicinamento all’evento, segno di una stima incondizionata che la Filarmonica viennese continua a nutrire per lui, affidandogli fra l’altro – e non è un dettaglio – il celebrato Concerto di Capodanno per ben sette volte, dal 1993 al prossimo 2025, occasione in cui si festeggerà il 200º anniversario della nascita di Johann Strauss jr.
Il gioco degli inviti contraccambiati riguarda peraltro anche il Ravenna Festival, di cui Muti è da sempre ospite principale e punta di diamante, ripetutamente accolto insieme all’orchestra austriaca. E così, dopo quattro serate celebrative a Vienna per l’evento beethoveniano, Muti e Wiener sono partiti alla volta di Berlino per la Notte europea alla Waldbühne, virando poi a sud, verso l’Italia, per inaugurare sontuosamente la 35ª edizione del Ravenna Festival.
Non staremo qui a ripetere l’ovvio e risaputo; ma è d’obbligo l’ennesimo commento di stupore e compiacimento sulla qualità sonora di questa orchestra che erompe in tutti noi ad ogni ascolto. È lo stupore di sentire il suono di un solo, enorme violino prodotto da decine di archetti in perfetta sincronia e intonazione (ma lo stesso discorso può ripetersi per i due fagotti o i tre tromboni); è il compiacimento nel sentire un’emissione sempre piena, levigata e tornita, nel pianissimo come nel fortissimo, eppure ognora diversa al cambiare di compositore, epoca, genere musicale.
Per la dodicesima presenza dei Wiener Philharmoniker a Ravenna, è stato prescelto un programma squisitamente viennese, destinato a venire ripetuto nei due giorni seguenti a Firenze e Bari. Fra le non moltissime sinfonie mozartiane che Muti ha in repertorio, la Haffner (n. 35) è forse quella che da sempre gli è più congeniale. A memoria di ascoltatore, fu probabilmente la sinfonia con cui, nel secolo scorso, percepii per la prima volta una diversa natura della musica strumentale di Mozart: virile, possente, contrapposta alla visione caramellata che veniva perlopiù divulgata all’epoca. La particolare predilezione di Muti per violoncelli e contrabbassi, combinata con le caratteristiche di questa orchestra e fors’anche con la particolare acustica del Palazzo Mario De André che li ospitava, producevano un inedito risalto di ogni linea grave, rendendo ancor più evidente l’approccio vigoroso di Muti a tale partitura.
Con la Haffner si risolveva una prima parte di concerto molto breve (poco più di venti minuti), in attesa dell’ultima sinfonia di Schubert, La grande, che più propriamente andrebbe chiamata L’immensa, e non solo per la sua durata. Nel repertorio sinfonico, è questa una delle partiture in cui le concertazioni di Muti hanno lasciato il segno, insieme alla Settima di Beethoven e alla Quarta di Schumann (oltre alla Haffner, s’intende). Fra le tante esecuzioni sentite da lui negli anni, e con diverse orchestre, questa ravennate è parsa la più nobile, la più composta, ma con un guizzo dionisiaco nell’ultimo movimento. I Wiener avevano cambiato colore rispetto a Mozart: la densità dei bassi si era trasmessa a tutti gli archi, ma la fluida cantabilità delle frasi aveva assunto i toni di una melodicità che senza timore diremmo “italiana”. E una scioltezza intrisa di umorismo. Ridotto al minimo l’uso della mano destra (quella principalmente preposta alla scansione del tempo), Muti modellava con la sinistra la natura espressiva di ogni attacco, mimava ogni guizzo dei fiati, estraeva dagli archi il cuore del suono. E particolarmente prezioso era il risalto di parti interne solitamente sfuggenti, di sincopi insolitamente accentate, di micro dettagli ritmici evidenziati dalla concertazione, spesso ammiccando coi singoli strumentisti in tono divertito.
L’effetto fascinoso “passava” senza intermediazioni anche al pubblico apparentemente più occasionale, raccolto in perfetto silenzio: 3500 spettatori occupanti ogni singolo posto di quell’atipico spazio polifunzionale che per qualche sera all’anno si tramuta in auditorium delle meraviglie. Ma la meraviglia maggiore doveva ancora giungere. Come già nel precedente concerto ravennate dei Wiener Philharmoniker (2021), il bis prescelto da Muti era il più viennese che si potesse immaginare: Kaiser-Walzer di Strauss. Per esso, l’orchestra ha cambiato nuovamente abito sonoro, indossando quello popolarmente più noto del capodanno televisivo: dominava ora una tersa leggerezza, mentre i virtuosismi del direttore si concentravano sulle dinamiche, su quei crescendo calibratissimi che lui solo sa pianificare e ottenere, su quell’improvviso conseguimento di un “pianissimo” che gli è tanto caro, seguito da un “ancora più piano” al limite della percezione.
Poi il silenzio, dopo l’ultimo accordo che, in ogni composizione, con Muti non è mai soltanto la nota finale, ma l’inizio della riflessione, del ricordo.
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