Quel pasticciaccio di Oreste
La riproposta del genere del "pasticcio", tipico della concezione operistica settecentesca, è vanificata dalla modestissma realizzazione musicale e scenica.
Recensione
classica
Il genere operistico del "pasticcio" è stato a lungo condannato aprioristicamente, quindi era stimolante la riproposta dell'"Oreste" a Spoleto, messo insieme da Haendel riciclando pezzi di opere precedenti e scrivendo due soli numeri nuovi, precisamente i balletti alla fine del primo e del secondo atto, che però in quest'occasione - ironia della sorte!- sono stati tagliati. Ma la modestia della realizzazione ha sciupato la bontà dell'idea iniziale. È stato infatti impossibile capire se questa volta Haendel non riesce a rendere l'essenza dei personaggi, delle situazioni e degli affetti a causa della natura stessa del "pasticcio" o per colpa di interpreti impermeabili alla tecnica e allo stile dell'opera seria settecentesca.
Allison Tupay (Oreste) è un sopranino leggero e non ha l'estensione vocale per una parte concepita originariamente per un castrato né la personalità di un grande protagonista tragico. Amy K. Shoremount (Ifigenia) e Camille Zamora (Ermione) tendono a un'espressività sentimentale di tipo romantico. Le cose vanno un po' meglio col Filotete di Christianne Rushton. Il settore maschile è composto dal pallido Pilade di Brandon McReynolds e dal Toante di Weston Hurt, il più centrato di tutti.
I cantanti patiscono anche la direzione di Daniel Beckwitt: c'è infatti uno iato totale tra le voci e l'orchestra, che va implacabile per la sua strada, sferragliando come un trenino, sempre alla stessa velocità, sempre con lo stesso volume, sempre con la stessa assenza di fraseggio. Né può bastare l'inserimento d'una tiorba per trasformare la Juilliard Orchestra in un complesso barocco.
Nella povera e bruttina cornice scenica di Raul Abrego, la regista Lillian Groag dà pochi e non indimenticabili segni della sua presenza, mescolando incongruamente moderno e antico, realismo e simbolismo.
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