Quel faro nasconde un mistero
Il Nationaltheater di Mannheim presenta un riuscito allestimento dell’opera da camera “The Lighthouse” di Peter Maxwell Davies
Nella storia della musica non c’è solo Mendelssohn ad essere stato ispirato dalle isole Ebridi. Nel punto più alto delle Ebridi esterne, a Eilean Mòr, esiste ancora oggi un faro divenuto famoso per un caso mai risolto avvenuto solo un anno dopo la sua messa in funzione nel 1899. Il 26 dicembre 1900 l’equipaggio della nave Hesperus approdò sull’isola per rifornire di cibo i tre guardiani James Ducat, Thomas Marshall e Donald MacArthur, ma non trovò nessuno: l’isola e il suo faro erano completamente deserti. Dei tre guardiani non c’era alcuna traccia né si ritrovarono mai i loro corpi. Nemmeno l’inchiesta che ne seguì, a causa di testimonianze contraddittorie, riuscì mai a fare luce su quella misteriosa sparizione.
Quella vicenda ispirò al compositore Peter Maxwell Davies l’opera da camera The Lighthouse andata in scena con successo al Festival di Edimburgo nel 1980 e da allora ripresa in svariati teatri e festival, da ultimo il Nationaltheater di Mannheim che, chiusa per lavori l’edificio storico nella Goetheplatz, ha presentato un nuovo allestimento nella dismessa fabbrica di bambole Schildkröt fra i capannoni del periferico distretto industriale di Neckarau.
Strutturata in un prologo (“La commissione d’inchiesta”) e un atto (“L’urlo della bestia”), l’opera ha tre soli interpreti vocali che impersonano i tre ufficiali della nave incaricata del rifornimento, interrogati da una presenza solo sonora (un corno) come testimoni dei fatti nel prologo. Nella seconda parte, i tre uomini diventano i guardiani del faro Sandy, Blazes e Arthur, che, come in un flashback, fanno rivivere una ricostruzione possibile degli eventi, senza offrire tuttavia risposte definitive sull’epilogo. Il disagio è palpabile nell’isolamento di quel faro avvolto nella nebbia e immerso in un paesaggio marino ostile. L’equilibrio anche mentale è fragile, la violenza è pronta a esplodere in ogni momento, l’abisso si rivela anche nello svago, solo apparente, di una canzone. E così la ballata di Blazes diventa occasione per confessare un omicidio che costa la vita al padre e provoca il suicidio della madre, la canzone d’amore di Sandy nasconde a malapena una malcelata brama di sesso che rivela una pulsione allo stupro (che verrà svelato poco dopo), così come il fanatismo religioso del metodista Arthur è il sintomo di una psicosi paranoide che gli fa vedere la “bestia” ovunque, anche nella sirena e nelle luci della nave che porta i rifornimenti, l’unico loro legame con il mondo. L’epilogo resta sospeso: non è chiaro, come nella vicenda reale, come siano andati i fatti ma quell’insieme esplosivo non poteva che portare all’annullamento delle tre solitarie esistenze.
L’allestimento firmato da Rahel Thiel per la grande navata vuota della Schildkrötfabrik insiste su pochi elementi. Il pubblico trova posto su una tribuna longitudinale che permette di sfruttare in lunghezza lo spazio destinato alla rappresentazione. Lo scenografo Fabian Wendling lascia modellare dal sofisticato disegno luci di Florian Arnholdt quello spazio abitato solo da una nebbia fitta che sale dal pavimento lungo tutta la durata dello spettacolo. Il profilo del faro è suggerito più che disegnato dai segni luminosi di tubi fluorescenti e solo tre tavoli mobili definiscono i vari ambienti. La claustrofobia risulta soprattutto nella vicinanza fisica dei tre protagonisti fra loro ma soprattutto con gli spettatori, che arrivano a percepirne quasi anche il respiro. Ottimo è comunque il lavoro della regista sui corpi dei tre bravissimi interpreti Christopher Diffey (Sandy), Timothy Connor (Blazes) e Bartosz Urbanowicz (Arthur), che punta a una identificazione quasi fisica con i rispettivi personaggi.
Altrettanto riuscita è la realizzazione musicale affidata alla guida attenta di Michael Zlabinger che fa sentire la tensione, talora latente, durante tutti i 90 minuti dell’opera eseguita senza pause. La vivida ricchezza della scrittura orchestrale di Maxwell Davies viene resa magistralmente nell’esecuzione dei dodici strumentisti della Nationaltheater-Orchesterimpegnati in un organico insolito (che prevede anche un pianoforte scordato, una chitarra e un banjo).
Pubblico piuttosto scarso ma molto generoso di applausi per tutti.
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