Praga magica, o quasi
A Reggio Emilia bel concerto della Prague Philharmonia diretta da Villaume tra Brahms e Dvořák
Fondata nel 1994 da Jiří Belohlavek, la Prague Philharmonia è stata protagonista l’altra sera di un bel concerto che ha appagato il pubblico presente al teatro Valli di Reggio Emilia, palesemente soddisfatto a giudicare dai copiosi e calorosi applausi con i quali ha salutato questa compagine alla fine di una intensa serata di musica dedicata a pagine di Brahms e Dvořák.
Ad aprire il programma il Concerto per pianoforte e orchestra n. 2 in si bemolle maggiore op. 83 che Johannes Brahms ha composto nel 1881 dedicandolo al «caro amico e maestro Eduard Marxsen», l'istruttore degli studi giovanili ad Amburgo. Ad incarnare il ruolo solista lo statunitense Andrew von Oeyen, il cui pianismo solido e concreto ha saputo affrontare con impegno i variegati piani espressivi di una pagina ampia per dimensioni costruttive e per varietà espressive.
I quattro movimenti del concerto sono stati quindi tratteggiati grazie a una cifra solistica sostanzialmente equilibrata, segnata da una indagine interpretativa indirizzata, più che ad evidenziare sfumature complesse, a ritagliare con sostanziale pulizia quei tratti virtuosistici che affiorano a più riprese da questa pagina. Un carattere ben assecondato dalla direzione di Emmanuel Villaume, dal 2015 direttore musicale e guida principale di una compagine che si è qui dimostrata pienamente capace di restituire quel carattere concertante che innerva quest’opera con una reattività al tempo stesso compatta e sensibile. Una qualità, questa, che è emersa in particolar modo in occasione dei due ultimi movimenti, con il clima lirico pregnante impresso dal solo iniziale di violoncello dell’Andante che si dilata al dialogo tra orchestra e solista da un lato, e dall’altro la brillantezza dell’Allegretto grazioso finale, nutrito da un trascinante incedere pianistico innestato sui volteggi ritmico-strumentali che restituiscono il gusto danzante e “ungherese” del Brahms più folklorico.
Un clima che ha rimandato idealmente alla seconda parte del concerto, vale a dire a quel profilo espressivo che connota la produzione di un compositore come Antonín Leopold Dvořák, esponente della musica nazionale ceca idealmente collocato tra Smetana e Janàček. Un autore che proprio nella sua produzione sinfonica è riuscito a plasmare a pieno quella personale cifra frutto dell’innesto di un’innata ispirazione popolare slava su una solida tradizione stilistica nutrita dalla lezione del romanticismo tedesco. Un carattere che proprio nella Sinfonia n. 7 in re minore op. 70 ritrova forse la più scoperta radice brahmsiana, appunto, con il suo taglio compatto ma variegato nei diversificati piani espressivi che si susseguono nei quattro movimenti che la compongono.
Una materia musicale che Villaume è riuscito a modellare sulla scorta di un segno interpretativo decisamente efficace, evidenziando le diverse sfumature che affiorano di volta in volta da un fluire sonoro brillante e compatto, frutto di un un’affinità strumentale che la compagine orchestrale praghese ha confermato possedere tra gli elementi distintivi della propria personalità, assieme ad un impasto timbrico dal fascino pregnante, compatto e caldo al tempo stesso. Un dato che ha valorizzato pienamente l’evoluzione narrativa di questa pagina, raggiungendo significative aperture liriche nel secondo movimento Poco Adagio, per poi intraprendere quella sorta di viaggio espressivo trascinante che dallo Scherzo Vivace conduce al Finale Allegro.
Un percorso completato dalla seconda delle Danze slave dello stesso Dvořák, che Villaume e la Prague Philharmonia hanno voluto concedere a coronamento di questa bella serata, aggiungendo quindi un terzo fuori programma ai due bis già offerti alla fine della prima parte e rispondendo così all’entusiasmo del pubblico di cui abbiamo riferito in apertura.
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