Bologna inaugura la stagione con una "Traviata" in cui direttore, cantanti e regista percorrono strade insolite, magari non convincenti per tutti, e tuttavia degne d'attenzione e interesse
La tragedia di Violetta è attuale, ovvero senza tempo. Dalla contemporaneità Verdi pensava di ricavare la forza dirompente del dramma, e proprio contro la contemporaneità si scagliò la censura dell'epoca, che pretese invece un'ambientazione retrodatata.
Da questo assunto prende le mosse la lettura scenica di Irina Brook e del suo team tutto al femminile, che ambienta la storia di Alfredo e Violetta nella cerchia della gioventù facoltosa di oggi. La cosa in sé non fa ormai più scalpore, e sortisce un buon effetto grazie a punte di poeticità che addolciscono invece di dissacrare, in mezzo a qualche concessione al Kitsch. I personaggi hanno una loro caratterizzazione, mutevole nel corso degli atti, e con alcuni spunti sottili -- specie in quelli maschili -- che solo una sensibilità femminile sa mettere in scena.
Anche Daniele Gatti reinventa la sua "Traviata": come in altre occasioni, la tradizione esecutiva della partitura non lo preoccupa più di tanto, trascura indugi e corone che tutti si aspettano, ricercando piuttosto tratti inediti, che fa emergere per l'interesse (se non sempre per il piacere) dell'ascoltatore che la solita "Traviata" la conosce a memoria. Vedi il Brindisi, scrostato della sua inveterata volgarità. Persino la tanto vituperata cabaletta del baritono non sembra allora più così brutta. Il momento migliore? di certo il primo preludio, morbidissimo, dove il tema di "Amami, Alfredo" viene per una volta sussurrato con infinita malinconia, anziché gridato dai violini.
Compagnia di canto internazionale, di quelle che manderebbero in visibilio qualsiasi platea d'oltralpe. Noi italiani, per una "Traviata", tendiamo ad essere più esigenti; ma consapevoli dell'attuale panorama canoro non possiamo che prendere atto dei pregi che pure non mancano, e in crescendo nel corso dello spettacolo: l'intensità espressiva di Norah Amsellem, la facilità d'emissione di James Valenti, la dizione chiara e scolpita di Dalibor Jenis.
Discreto successo nonostante i dubbi diffusi, infastidito soltanto da claqueurs tanto insistenti e fuori luogo quanto controproducenti, capaci d'indisporre il pubblico attirandosi zittimenti continui, piuttosto che trascinarlo all'applauso.
All'esterno e all'interno, accanto alle manifestazioni per i tagli economici alla cultura, spiccano quelle contro il degrado del centro urbano, ormai tradizionali all'inaugurazione di stagione quanto vane.
Note: Norah Amsellem / Svetla Vassileva (Violetta Valéry); James Valenti / Antonio Gandía (Alfredo Germont); Dalibro Jenis / Giovanni Meoni (Giorgio Germont)
Nuovo allestimento, in coproduzione con l'Opera di Lille
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Direttore: Daniele Gatti
Maestro del coro: Marcel Seminara
Regia: Irina Brook
Scene: Noelle Ginefri
Costumi: Sylvie Martin-Hyszka
Coreografie: Cecile Bon
Luci: Zerlina Hughes
Recite: 18, 19, 20, 22, 23, 24, 26, 27 novembre 2005
Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche
Ad Amsterdam Romeo Castellucci mette in scena “Le lacrime di Eros” su un’antologia di musiche del tardo rinascimentoscelte da Raphaël Pichon per l’ensemble Pygmalion