Padova: Uno sguardo contemporaneo sul passato
Conclusa la terza edizione del festival “Veneto Contemporanea” dell’Orchestra di Padova e del Veneto
È un po’ meno contemporanea la terza edizione di “Veneto Contemporanea” la rassegna dell’Orchestra di Padova e del Veneto, che il suo direttore artistico Marco Angius ha voluto intitolare nietzschianamente “Eterni ritorni”. C’è molta musica del passato nei cinque concerti del ciclo anche se riletta da compositori, se non esattamente contemporanei, del secolo scorso come lo Schubert del Winterreise nell’interpretazione compositiva di Hans Zender che a Padova contava sulla direzione dello stesso Angius e l’interpretazione vocale di Leonardo Cortellazzi, o il Mahler dei Fünf frühe Lieder orchestrato da Luciano Berio con la voce di Markus Werba e la direzione di Andrea Mollino. Anche l’unica creazione ufficiale del programma guardava al passato: Nel giardino incantato di Klingsor di Luca Antignani, che riprende nel titolo la celebre annotazione affidata da Richard Wagner al registro dei visitatori di Villa Ruffolo il 26 maggio del 1880 (“Il giardino incantato di Klingsor è trovato”), è un esperimento di spazializzazione acustica del preludio del Parsifal affidato a quattro quartetti d’archi disposti intorno al pubblico fra le antiche piante dell’Orto Botanico di Padova (e con tre danzatrici della compagnia Vertical Waves Project a fare da fanciulle fiore).
La rilettura dei miti classici in ogni sua declinazione (inclusa la sua negazione o rovesciamento), asse portante della programmazione dell’annuale “Veneto Contemporanea”, trova forse la sua incarnazione più emblematica in Gian Francesco Malipiero, figura appartata e difficilmente incasellabile in movimenti o scuole (“Le classificazioni musicali per categoria non le accetto: io sono libero nel mio spirito e sono quello che sono”, disse di sé) ma dal profilo cosmopolita e dagli interessi raffinati e soprattutto ben radicati nelle multiformi ramificazioni del Novecento musicale, attraversato e reinterpretato in chiave personale in tutti i suoi snodi fondamentali nella sua lunga parabola creativa, dal primo decennio ai primi anni Settanta del secolo scorso.
La rilettura del passato per ritrovare le ragioni e il senso della propria ispirazione è una costante nel percorso artistico di Malipiero e la chiave di lettura del primo dei concerti della rassegna nella scenografica Sala dei Giganti del Palazzo del Liviano, che metteva a confronto Malipiero con un’altra figura chiave del Novecento musicale italiano come Dallapiccola. Un confronto certo piuttosto particolare nel caso di Dallapiccola, di cui venivano eseguite la Tartiniana I e la Tartiniana II, due delle tre opere tonali (con la Sonatina canonica su Capricci di Paganini) del compositore più rigorosamente legato al linguaggio dodecafonico. Quasi a giustificazione per questi “lavori di traduzione” piuttosto lontani dalla sua cifra più personale, lo stesso Dallapiccola ebbe a scrivere: “Che, dopo ciascuna delle citate esperienze tonali io abbia fatto un notevole passo innanzi sul cammino della dodecafonia è un fatto, troppo lungo a spiegarsi, tuttavia un fatto incontestabile e notato da tutti coloro che hanno studiato a fondo le mie musiche.” Sia come sia, si tratta di “divertimenti”, sia nel senso di omaggio al modello settecentesco cui soprattutto la Tartiniana I del 1951-52 è legata laddove la seconda del 1955-56 è più libera e articolata nella costruzione, sia in quello di diversione “leggera” dal consueto rigore formale del compositore. Entrambe, comunque, nascono come una sorta di omaggio al grande violinista Giuseppe Tartini, istriano come Dallapiccola, del quale vengono ripresi diversi temi “alla lettera” con grande risalto del violino solista (nel concerto di Padova benissimo incarnato dal virtuosismo di Marco Rogliano, spalla dell’OPV) in un impaginato che è esso stesso un omaggio alla tradizione settecentesca. Un’operazione simile fece Malipiero con la sua Vivaldiana del 1952, negli anni in cui il compositore stava curando l’edizione dell’opera omnia del Prete rosso, fresco di riscoperta. “Arbitrarissima interpretazione”, secondo lo stesso Malipiero, ma sostanzialmente fedele al linguaggio dei concerti vivaldiani modificati solo nell’orchestrazione, che introduce la famiglia dei legni e i corni. Ascoltare oggi queste composizioni, specie nella diligente ma compassata direzione di Roberto Polastri, fa l’effetto di un salto nel passato ma vale soprattutto come testimonianza di un approccio anche musicologico al barocco musicale oramai del tutto superato dalle moderne prassi esecutive.
“Il carattere che più chiaro ci appare se pensiamo il decorso dell’opera malipieriana […] è ch’egli non procedette per crisi, conversioni, improvvise scoperte. […] Così procedette la sua musica dalla accumulazione di particolari e da un senso d’improvvisazione inquieta, che dominano gli esperimenti del primo periodo, fino alla vasta e macerata calma che è il carattere della sua musica d’oggi”, così Massimo Bontempelli nel 1942 descriveva l’evoluzione del linguaggio musicale di Malipiero, del quale rendeva testimonianza completa il concerto conclusivo della rassegna diretto con competente professionalità da Alessandro Cadario. Quattro i pezzi del programma, scelti dal catalogo del compositore veneziano per coprirne praticamente l’intero arco creativo, cioè fra il 1921 e il 1971. Accanto ad altri due omaggi a compositori del passato – la spigliata Cimarosiana del 1921 e la solenne Gabrieliana del 1971 – venivano proposte due sinfonie delle undici composte da Malipiero fra il 1906 e il 1969. Perfetto esempio di quella “vasta e macerata calma” descritta da Bontempelli è la Sinfonia n. 6 del 1947 detta “Degli archi” per l’organico orchestrale ristretto ai soli archi. Classicamente suddivisa in quattro movimenti, di carattere piuttosto diverso, pur nell’alternanza di movimenti vivaci ad altri più meditativi trasmette nel complesso un senso elegiaco, evidente nel secondo movimento e nel lento spegnersi del quarto fino al silenzio. La Sinfonia n. 10 del 1967, dedicata alla memoria dell’amico Hermann Scherchen, il direttore d’orchestra scomparso improvvisamente nel 1966, mentre a Firenze dirigeva il trittico operistico L’Orfeide dello stesso Malipiero, è intitolata “Atropo” dalla più anziana delle tre Parche, cui spettava il compito di recidere il filo della vita di ogni individuo. Composta per un organico ampio che comprende anche pianoforte e celesta, la sinfonia è divisa in quattro brevi movimenti di carattere piuttosto diverso, i più mossi di carattere quasi stravinskiano, che combinano materiali tematici tratti da altre composizioni e dall’Orfeide, non una marcia funebre ma quasi un’immaginaria ricostruzione delle tracce di suoni incisi nella memoria dell’amico scomparso. Due proposte che, ci auguriamo, siano solo un assaggio dell’integrale sinfonica malipieriana promessa dal direttore artistico Marco Angius.
Archiviato “Veneto Contemporanea” numero tre, non si ferma comunque il viaggio dell’Orchestra di Padova e del Veneto nell’articolato universo sonoro di Gian Francesco Malipiero: prossima tappa l’11 giugno al Festival Vicenza in Lirica con l’opera Ecuba.
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