Nabucco e gli oppressi di oggi
La nuova produzione di “Nabucco” del Grand Theatre di Ginevra conquista e commuove
Christiane Jathay è una regista teatrale e cinematografica che porta nel suo “Nabucco” (in scena al Grand Theatre di Ginevra fino al 29 giugno) contaminazioni di rottura e innovazione. La sua è una proposta concettuale, dall’efficacia visiva di grande impatto, sicuramente divisiva come lo sono tutte le vere sperimentazioni, ma mai scontata. Necessita di un gran team di lavoro e importa nell’opera la proiezione di riprese live, di grandi schermi specchianti, di un’enorme pozza d’acqua al centro del palcoscenico.
Lo spettacolo si rivela pieno di sorprese, a partire dalle voci femminili del coro che, mimetizzate tra il pubblico, si alzano in piedi per cantare come in un flash mob operistico.
Ottimo il cast vocale, soprattutto sul versante maschile. Al suo debutto nel ruolo, Nicola Alaimo delinea un Nabucco shakespeariano, erede di Re Lear: il suo carattere di artista a tutto tondo lo rende credibilissimo alternativamente sia quale sovrano altero sia quale inerme folle. Il suo declamato è tutto giocato sulla parola e la precisione nel porgere il suono, coadiuvate dalle disarmanti espressioni del volto e delle mani.
Riccardo Zanellato è uno Zaccaria autoritario, dall’espressività duttile: carismatico leader, è il suo timbro inconfondibile a dare unicità alla sua interpretazione, insieme alla particolare attenzione che porge alle dinamiche, al sostegno del fiato, ai pianissimi impalpabili.Piace la prova di Davide Giusti come Ismaele: il ruolo è pesante e difficile, ma stupisce e convince pienamente la freschezza giovane con cui lo fa suo e lo plasma. Saoia Hernández è una Abigaille sanguigna (bellissima nel suo farsi carico di un potere che è concettualizzato da un enorme, pesantissimo telo inzuppato d’acqua, o intriso di responsabilità), Ena Pongrac una Fenena indifesa (straziante il modo in cui viene portata in scena al suo primo apparire, vera vittima insidiata).
Antonino Fogliani alla direzione musicale propone una lettura molto intima e a tratti commovente: diversi i tagli e le interpolazioni non verdiane (aggiunge anche un intermezzo sinfonico da lui firmato a fine opera) ma sono tutte drammaturgicamente giustificate e rilevanti. Il coinvolgimento del pubblico nella rappresentazione (le coriste che cantano in platea, i grandi specchi che riflettono sul palcoscenico l’immagine di tutti gli astanti) si traduce in una provocazione e allo stesso tempo in un passaggio di testimone delle responsabilità dei singoli — dall’astratto al quotidiano — rispetto ai temi sollevati in questa lettura dell’opera: popoli oppressi e oppressori, da libretto rispettivamente israeliti e babilonesi, sono idealmente popoli di moderni migranti, con le contraddizioni dell’essere tali, le difficoltà, l’emarginazione.
Lo spettatore si sente così chiamato in prima persona a riflettere su temi caldi della contemporaneità, e in una virtuale vicinanza con gli oppressi dell’oggi.
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