“Mefistofele” inaugura con successo la stagione dell’Opera di Roma
Una lettura moderna che elimina la polvere della routine e rimette a nuovo l’opera di Boito
“Il ritorno di Mefistofele”: non è il titolo di un horror movie, al contrario è una buona notizia. La vecchia opera di Arrigo Boito veniva data ormai per spacciata e invece si è risvegliata dal letargo, si è scossa di dosso la polvere che la ricopriva da decenni e si è conquistata un posto in tre delle stagioni delle fondazioni liriche italiane, pochi giorni fa a Cagliari, adesso a Roma e tra qualche mese a Venezia. Al Teatro dell’Opera di Roma ha inaugurato la nuova stagione con un successo che non è dipeso dalla presenza di cantanti dalla voce impressionante - senza con questo voler togliere nulla ai protagonisti di quest’edizione - come i Nazzareno de Angelis, gli Ezio Pinza, i Tancredi Pasero e i Giulio Neri che tra la fine degli Anni Dieci e la metà dei Cinquanta portavano Mefistofele sulle scene del Costanzi, in media un anno sì e un anno no. Questa volta è stato proprio Boito a guadagnarsi il successo col suo libretto e la sua musica. Naturalmente anche grazie all’aiuto degli interpreti, che hanno spazzato via polvere e ragnatele, riportando alla luce una musica che non è di oro zecchino, ma comunque di buon metallo, in cui è incastonato anche qualche gioiello.
Il lavoro di ripulitura più accurato l’ha fatto Michele Mariotti, che ne ha dato una lettura non enfatica ma tagliente e aspra, non sentimentale ma pessimistica e disperata, riscoprendo la grande modernità di quest’opera. Il Direttore musicale del teatro romano l’Opera non l’ha trattata come un cascame ottocentesco ma come un’opera moderna, ponendo grande attenzione alle dinamiche, alla scrittura orchestrale (e corale) mai banale ed eliminando approssimazioni e cialtronerie. Lo si capiva già dalle prime battute, con lo squassante accordo iniziale, seguito da una breve melodia celestiale e un po’ infantile - un contrasto quasi mahleriano - e poi da un altro cataclisma orchestrale con il cannoneggiamento dei timpani e da un grande crescendo un po’ wagneriano. Già da quest’inizio Mariotti ci fa sentire e capire come Boito volesse andare oltre, spingersi fino all’inaudito, aprire delle porte sul futuro. Quest’inizio e molto - non dico tutto - di quel che segue erano totalmente inimmaginabili nell’Italia del 1868 (ora si esegue la versione del 1876).
Le melodie stesse non sono le solite melodie sfogate all’italiana, ma hanno un carattere nuovo e un rapporto più stretto col testo, che è anch’esso nuovo perché si spinge o cerca di spingersi in zone della psiche e dell’emotività fino ad allora poco o nulla esplorate dall’opera (d’altronde lo esigeva il soggetto stesso che Boito aveva coraggiosamente scelto). Su questi aspetti si concentra l’interpretazione di Mariotti, che però trova anche una mediazione con quelle parti che guardano al grand-opéra, a Verdi, perfino a Donizetti.
Mariotti ha avuto un’ottima intesa con la compagnia di canto. John Relyea (Mefistofele) ha voce potente ma non debordante e un bel timbro di basso, non bituminoso, anzi leggermente chiaro. La frequentazione di un repertorio amplissimo, da Haendel e Mozart a Wagner e Britten, gli ha insegnato a piegare la sua voce ad ogni esigenza, ed infatti è di volta in volta diabolico, ironico, minaccioso, insinuante. Joshua Guerrero (Faust) si presenta col celebre “Dai campi, dai prati” cantato come deve essere, cioè piano e dolce, con espressione meditabonda, ma si capisce che in quel tipo di canto non si trova perfettamente a suo agio, mentre va molto meglio dove può dar maggior sfogo alla sua bella voce tenorile, come nella scena del giardino e particolarmente nel tormentato duetto del terzo atto con Margherita, in cui Maria Agresta è veramente maiuscola, per interpretazione, per vocalità e per recitazione. Come voleva Boito, alcuni cantanti interpretano due personaggi diversi: così l’Agresta è anche Elena e l’ottima Sofia Koberidze è prima Marta e poi Pantalis. Bene anche Marco Miglietta (Wagner). Completa adeguatamente il cast Leonardo Trinciarelli nel piccolo ruolo di Nereo. Da segnalare l’eccellente prova del coro, altro grande protagonista del Mefistofele: è significativo che quando alla fine è uscito al proscenio per i ringraziamenti, il Maestro del coro Ciro Visco sia stato subissato da applausi non inferiori a quelli degli altri protagonisti.
Come succede sempre più spesso, hanno invece avuto una discreta dose di fischi il regista Simon Stone e i suoi collaboratori Mel Page (scene e costumi) e James Farncombe (luci). Non sono assolutamente d’accordo con i fischiatori, che erano comunque una minoranza. Stone colloca tutta l’opera in una scena geometrica e astratta, che si potrebbe definire uno spazio mentale: un parallelepipedo bianco, ma talvolta illuminato da qualche luci colorata, per lo più vuoto, ma talvolta con pochi ed essenziali arredi. Essenziali anche i movimenti scenici: la recitazione dei protagonisti è sì minimalista ma molto curata, mentre il coro è immobile durante il sabba, per fortuna! Su qualche scelta di secondaria importanza si potrebbe anche discutere (d’altronde qual è la regia moderna in cui non c’è nulla da discutere?) ma Stone da una parte elimina tutta l’oleografia ottocentesca, dalla Francoforte medioevale alla valle selvaggia, eccetera eccetera, e dall’altra individua correttamente e senza stramberie i personaggi del poema di Goethe rivisti e corretti da Boito.
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