Lyda satanica a Venezia

Alla Fenice Rapsodia satanica con le musiche di Mascagni, e una mostra dedicata a Lyda Borelli dalla Fondazione Cini

Recensione
classica

“La donna della scena deve possedere un tipo di bellezza la quale sia capace di rendere ogni interna agitazione dello spirito”. Era molto consapevole del suo ruolo Lyda Borelli, protagonista di una parabola artistica di nemmeno vent’anni conclusa all’apice del successo dal matrimonio con il conte Vittorio Cini nel 1918, quando abbandona le scene per dedicarsi completamente al suo ruolo di moglie e di madre. Un debutto teatrale precoce nel 1901 a quattordici anni e rapidamente protagonista di ruoli di rilievo della scena teatrale italiana dei primi due decenni del Novecento: è Favetta nella prima assoluta della Figlia di Iorio e della prima italiana de Il ferro di D’Annunzio, protagonista di Fernanda di Victorien Sardou, della prima assoluta di Le nozze dei centauri di Sem Benelli, e celebrata Salomè nel dramma di Oscar Wilde, ruolo che porta anche in una trionfale tournée sudamericana.

Non mancò nemmeno di visitare con successo i set della nascente arte cinematografica diventando una vera e propria star. Un successo di cui restano poche tracce, colpevole anche, si dice, la gelosia del marito, che cercò di cancellare la memoria di quel successo anche ostacolando la circolazione dei film della moglie. Con un atto riparatore, la Fondazione intitolata alla memoria di Giorgio, figlio di Vittorio Cini e della Borelli, dedica alla diva la mostra “Lyda Borelli, primadonna del Novecento” al secondo piano di Palazzo Cini, residenza veneziana della famiglia, curata da Maria Ida Biggi, direttrice dell’Istituto per il Teatro e il Melodramma della Fondazione.

Accanto a numerose testimonianze della carriera teatrale, dei molteplici interessi e della sfera privata della Borelli, non manca una corposa documentazione della breve ma folgorante carriera cinematografica della diva, dal debutto di Ma l’amor mio non muore di Mario Caserini del 1913 fino a Carnevalesca di Amleto Palermi del 1918, con l’inedito La memoria dell’altro di Alberto Degli Abbiati del 1913 con musiche dal vivo a chiusura della rassegna il 10 novembre.

Si comincia dal titolo forse più noto, che, fra l’altro, compie cent’anni: Rapsodia satanica, unica incursione cinematografica di una delle grandi firme del melodramma nostrano d’inizio Novecento, Pietro Mascagni. Il nome di Mascagni spiega lo spazio scelto per l’evento, cioè le Sale Apollinee del massimo teatro veneziano. Introducendo la proiezione, Matteo Pavesi, direttore della Fondazione Cineteca Italiana di Milano, artefice del restauro della pellicola, insiste sul valore epocale del film per almeno tre motivi: per la presenza di una delle massime dive di sempre come la Borelli (“sentimento incarnato”, secondo la definizione di Pavesi); per la regia del torinese Nino Oxilia intrisa di suggestioni letterarie da Gozzano a D’Annunzio; e ovviamente per la musica di Mascagni così intonata ai personaggi del film che, secondo Pavesi, “si potrebbe chiudere gli occhi e seguire le vicende solo attraverso quella musica”. Fortunato Ortombina, direttore artistico del Teatro La Fenice, scherza sullo snobismo dei melomani che continuano a guardare il cinema dall’alto in basso, ma ricorda come Mascagni avesse preso sul serio il cimento con un genere insolito e nuovo come il cinema ancora muto, nonostante egli godesse all’epoca già di grande popolarità come operista.

Certo la molla non è solo artistica, come rivela una lettera alla moglie del 1914 (“Ho firmato ora il contratto. Ed è un contratto colossale!”), ma certamente Mascagni prende sul serio un lavoro che ritiene di completare rapidamente (“Con 55 minuti di musica me la cavo. Il cronografo mi serve a meraviglia. Se ci prendo la mano, credo di far presto.”) e che invece si rivela più impegnativo del previsto (“Il mio lavoro è penoso e noiosissimo. Cerco di adattare la mia musica lavorando col cronografo. Figurati che un pezzettino di musica che deve durare14 secondi ho dovuto stanotte ripeterlo più di 150 volte per aggiustarlo.”). Il risultato è comunque motivo di grande soddisfazione per il compositore, che nel 1915 scrive: “Torno in questo momento dalla Cines, dove abbiamo eseguito la musica con la pellicola girata dalla macchina elettrica. Io ne sono contento, va alla perfezione. Non avrei mai immaginato una simile esattezza: il sincronismo è riuscito perfetto da cima a fondo”.

Le cose vanno per le lunghe e il film verrà presentato al pubblico a Torino, nel lussuoso Salone Ghersi, solo nel 1918 con ben 45 repliche con la musica diretta dello stesso Mascagni, che scriverà: “Sono qui a Torino a lavorare; e non è una cosa troppo elevata ch’io compio, poiché dirigo in un Salone Cinematografico, per quanto sia un Salone meraviglioso, tale che nessun teatro d’Italia può competergli per ricchezza e magnificenza. Ed è anche vero che ho una grande orchestra da Concerti Sinfonici. Ma certamente non è una cosa troppo nobile. D’altra parte sono qui per guadagnare, e non debbo vergognarmi.” E rieccolo lo snobismo dell’operista, mitigato però da un certo piglio pragmatico.

Se oggi la partitura mascagniana oggi suona decisamente di genere, anche se di un genere che allora era tutto da farsi, non così sembrò all’epoca: “Sembra, in alcuni momenti, che l’autore, comprendendo i pericoli della sinfonia eccessivamente programmatica e letteraria, abbia voluto avvicinarsi a quella 'absolute musik' di cui discorrono i musicologi alemanni. Ma anche quando la musica s’appalesa indiscutibilmente (e necessariamente) programmatica, non ci troviamo già dinanzi ad una gretta pittura di minutaglie. La fantasia musicale, fecondata dal fantasma poetico, è sì, condotta programmaticamente; ma in che vastità di spazio si muove!”, riferiva “La Vita Cinematografica” nel dicembre del 1917.

La musica – riproposta nella proiezione veneziana in una riduzione per trio di violino (Aurora Maria Mistica Bisanti), violoncello (Giulia Monti) e pianoforte (Francesca Badalini, che firma anche l’adattamento musicale) – ebbe la sua parte ma il successo della pellicola si deve a lei, alla diva, presente praticamente in ogni inquadratura di una vicenda in un prologo e due atti molto faustiana che la vede vestire i panni della contessa Alba d’Oltrevita. La vecchia contessa rivuole la giovinezza, il diavolo gliela concede a patto che lei rinunci all’amore. Tornata giovane flirta con i fratelli Sergio e Tristano. Lei si concede a Tristano e Sergio si uccide. Il patto è tradito. La giovinezza si dissolve e, in una scena madre da grande teatrante, lei muore schiacciata dai rimorsi.

Alla sua morte nel 1959, scriveva Nicola Adelfi sulla "Stampa": “Con Lyda Borelli scompare l’attrice più affascinante e famosa che abbia avuto il cinema italiano quando aveva per mercato il mondo intero e i suoi studi maggiori sorgevano a Torino. Era l’epoca in cui imperavano il dannunzianesimo e il sembenellismo, e Lyda Borelli estrinsecava con suggestiva raffinatezza l’una e l’altra voga. Per le nuove generazioni, il suo è poco più di un nome appena, una immagine sbiadita, ma per chi in quell’inizio del secolo era già adulto, il ricordo di Lyda Borelli richiama alla mente tutt’un mondo scomparso.” Per chi ha voglia di affacciarsi su quel mondo, una finestra è aperta a Palazzo Cini fino al prossimo 15 novembre.

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