L’umanità dell’Orfeo di Carsen

Al Théâtre des Champs Elysées torna l’Orfeo ed Euridice di Gluck con Orliński protagonista 

Orfeo ed Euridice
Recensione
classica
Parigi, Théâtre des Champs-Elysées
Orfeo ed Euridice
21 Settembre 2022 - 01 Ottobre 2022

Invecchiano molto bene gli allestimenti di Robert Carsen e il suo Orfeo ed Euridice non fa eccezione. Concepito per la Lyric Opera di Chicago nel 2009, lo spettacolo ha girato numerosi teatri (fra questi, l’Opera di Roma che l’ha presentato nel 2019), prima di tornare al Théâtre des Champs-Elysées , dove lo spettacolo era già stato visto nel 2018. La ricetta dell’eterna giovinezza è il puntare al nucleo drammaturgico essenziale, sfrondando la scena di ogni orpello superfluo e non appesantendo la lettura registica di sovrastrutture ideologiche.

In questo suo Orfeo ed Euridice, per il quale giustamente sceglie la più compatta prima versione composta da Christoph Willibald Gluck e dal librettista Ranieri de’ Calzabili per Vienna nel 1762, Carsen racconta l’esperienza della perdita della persona amata. Contro un paesaggio arido coperto di sassi (la materica scena fissa, magicamente illuminata con i colori del crepuscolo, della notte e dell’alba da Peter Praet in collaborazione con lo stesso Carsen, è di Tobias Hensel come i rigorosi costumi) un corteo funebre accompagna la salma di Euridice avvolta in un lino bianco alla sepoltura. Il dolore di Orfeo è rappresentato in tutta la sua umanissima sofferenza davanti alla fossa riempita lentamente di pietrisco. La sua discesa agli inferi è rappresentata come la prosecuzione di un rito funebre dal colore quasi arcaico, nel quale fra i vivi e i morti non esiste una separazione. L’elemento sovrannaturale non c’è, poiché tutto è riportato entro coordinate umane, come l’apparizione di Amore che sembra il doppio di Euridice o il toccante incontrarsi di nuovo dei due sposi e il loro solo rinnovato distacco prima che gli dei concedano ad Euridice di tornare definitivamente dallo sposo per il lieto fine compiacente e un po’ posticcio confezionato da Gluck e Calzabigi per i viennesi.

Se lo spettacolo torna intatto sul palcoscenico del teatro parigino (grazie alle cure di un collaboratore fedele come Christophe Gayral), non è così in buca dove il Balthasar Neumann Ensemble guidato da Thomas Hengelbrock prende il posto di Diego Fasolis e dei suoi Barocchisti dell’edizione 2018. Anche in questo Orfeosi conferma la speciale affinità del direttore tedesco con il mondo gluckiano già sperimentata nell’Iphigénie en Tauride allestita anche dal regista canadese nello stesso teatro nel 2019: il suono trasparente sostiene il canto e la parola, gli scatti dinamici si ritrovano soprattutto nel ballo delle furie altrimenti il passo è quello mesto di un canto funebre ricco di poesia dei suoni.

Completamente rinnovata anche la locandina, che vede Philippe Jaroussky cedere il posto a Jakub Józef Orliński, immerso totalmente, sia dal punto di vista scenico che vocale, nel ruolo ma non convince del tutto una certa mancanza di sfumature in una linea vocale sicura ma poco variata nel fraseggio. Non mancano comunque bei momenti soprattutto nel commovente scambio con Euridice nel secondo atto. Meno interessante soprattutto sul piano vocale è sembrata Regula Mühlemann, che sostituisce Patricia Petibon come Euridice; poco più che corretta la sua prova ma emotivamente poco partecipata. Più brillante, invece, Elena Galitskaya, un Amore che porta un tocco di freschezza e di luce nel dramma. Fondamentale l’apporto del Coro del Balthasar Neumann Ensemblecapace di una gamma di dinamiche e una presenza scenica che aggiunge peso a questo Gluck italiano.

Pubblico numeroso, caldi applausi.

 

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