L’impetuoso e gioioso equilibrio di Daniel Harding
Successo a Modena per il direttore inglese che ha aperto con Dvořák e Brahms la stagione concertistica del Teatro Pavarotti
Tanti, lunghi e convinti gli applausi che il pubblico del Teatro Pavarotti di Modena ha tributato a Daniel Harding e alla Chamber Orchestra of Europe in occasione dell’appuntamento che l’altra sera ha inaugurato la stagione concertistica 2019/2020, tappa di un più ampio tour che vede impegnato il direttore inglese alla guida di questa formazione nel nostro Paese.
Allievo di Simon Rattle e di Claudio Abbado, classe 1975, Harding oggi è direttore musicale della Swedish Radio Symphony Orchestra e dell’Orchestre de Paris, direttore onorario della Mahler Chamber Orchestra, e collabora abitualmente con orchestre quali Berliner Philharmoniker, Wiener Philharmoniker, Royal Concertgebouw Orchestra, Sinfonica della Radio Bavarese, Orchestra Filarmonica della Scala. Nel nostro Paese, inoltre, dallo scorso anno ricopre l’incarico di direttore artistico del Festival Anima Mundi di Pisa. Un’attività articolata ed intensa per un direttore capace di tracciare una propria personale linea interpretativa confrontandosi con equilibrio con repertori diversi e compagini orchestrali differenti.
Un dato che è emerso anche in occasione di questo concerto, il cui programma è stato aperto dal gesto repentino con il quale Harding ha dato l’attacco alla prima delle otto Danze slave op. 72 di Antonín Dvořák, seguito con rodata immediatezza dalla reazione compatta di un’orchestra che ci ha portati immediatamente in una sorta di medias resespressiva rispetto al clima che ha caratterizzato la lettura impressa a queste pagine dal direttore di Oxford. L’atmosfera caratteristica che il musicista boemo ha distillato in questo suo lavoro realizzato tra il novembre del 1886 e il gennaio dell’anno successivo, legata profondamente a rimandi folklorici e costumi popolari, ha trovato qui una sorta di trascinante esasperazione interpretativa, dove le dinamiche nette, i tempi spicci e i piani timbrici tracciati con nitidezza parevano illuminare con originale vivacità le radici tradizionali di queste danze. Il tutto tratteggiato dalla fascinosa coesione di una compagine orchestrale brillante e compatta.
Caratteri che sono stati confermati anche nella seconda parte del programma dove, affrontando la Seconda Sinfonia di Johannes Brahms l’indagine di Harding ha però virato su una lettura dal respiro più ampio e dispiegato, sia pure vivacemente gioioso. Il sereno equilibrio che sottende a questa composizione che il maestro viennese ha scritto quasi di getto nell’estate del 1877, è stato valorizzato da un approccio che ha saputo esaltare l’intensità espressiva che attraversa i quattro movimenti, trovando nel conclusivo “Finale” un crescendo efficacemente coinvolgente, in grado di confermare la qualità timbrico-espressiva di un’orchestra capace di comunicare, oltre a un’efficace solidità tecnica, quella “gioia della musica” di bernsteiniana memoria che ci è parsa fare capolino nel gesto generoso ed eloquente di un Daniel Harding in piena forma.
Come si è accennato in apertura, alla fine bel successo da parte del pubblico, con tanto di richiesta di bis che, comunque con eleganza, non è stato concesso.
Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche
Jonas di Carissimi e Vanitas di cinque compositori contemporanei hanno chiuso le celebrazioni per i trecentocinquanta anni dalla morte del grande maestro del Seicento
Il primo pianista francese a vincere il Čajkovskij di Mosca conquista il pubblico milanese con un interessante quanto insolito programma.