Les Vêpres siciliennes nella Spagna franchista

All’Opera di Roma Daniele Gatti guida ad un’interpretazione maiuscola un ottimo cast e un coro e un’orchestra  in gran forma

Les Vêpres siciliennes  (Foto Yasuko Kageyama)
Les Vêpres siciliennes  (Foto Yasuko Kageyama)
Recensione
classica
Teatro dell’Opera, Roma
Les Vêpres siciliennes
10 Dicembre 2019 - 22 Dicembre 2019

I Vespri siciliani  non sono più una rarità, ormai vengono rappresentati con una certa frequenza e quasi sempre nella versione originale francese, la cui prima italiana ebbe luogo soltanto recentemente, nel 1997, proprio a Roma. Ma non erano mai stati rappresentati in forma assolutamente integrale, con le lunghe danze del terzo atto complete e tutto il resto, tanto che si è restati in teatro per oltre quattro ore e mezzo e alcuni pochi spettatori se la sono filata via prima, ma si sa che nel pubblico delle inaugurazioni c’è sempre qualche presenzialista a cui non importa niente della musica. Se invece gli fosse importato della musica, non se ne sarebbero andati, perché Les Vêpres siciliennes  appartengono al miglior Verdi, nel fiore della piena maturità artistica, subito dopo Trovatore  e Traviata  e subito prima di Simon Boccanegra  Un Ballo in maschera

Era la sua prima opera scritta per Parigi, e il grand opéra  non era il melodramma, gli assomigliava esteriormente ma nel profondo era molto diverso. Verdi non la prese alla leggera e ci mise tutto l’impegno necessario ad imprimere una svolta alla sua arte: l’aspetto più notevole è la particolare attenzione data all’orchestra, non per dimostrare di saper scrivere bene ma perché scoprì che l’orchestra può aggiungere molto a quel che dicono le voci, scavando in psicologie più ricche, complesse e contorte di quelle dell’opera italiana, dove i “buoni” sono totalmente buoni e i “cattivi” sempre cattivissimi, per dirla in soldoni. Si capisce allora quanto sia stata determinante la presenza sul podio di Daniele Gatti, alla sua quarta inaugurazione romana consecutiva, ma alla prima come direttore principale dell’Opera. Per rendersene conto è bastata la prima parte dell’ouverture, in cui ogni nota e ogni timbro erano perfettamente soppesati, con gli strumenti gravi che serpeggiavano sotto la melodia purissima, minacciosi e cupi, ma non catramosi come nelle esecuzioni all’ingrosso, e poi l’esplodere della seconda parte, irruente ma non troppo veloce né chiassosa, senza quegli insopprimibili tratti bandistici che erano sempre emersi prima, anche nelle migliori esecuzioni: questa volta l’ouverture non era semplicemente suonata meglio, era profondamente diversa.

Ma il lavoro più approfondito, veramente nuovo e totalmente rivelatore, Gatti lo ha fatto nell’accompagnare o piuttosto arricchire i numeri vocali. Quel che ha fatto nell’aria di Montfort all’inizio del terzo atto (ma lo stesso vale per tante altre pagine di quest’opera sterminata) è da incorniciare: un accurato, delicato, raffinato lavoro di bulino sull’orchestra (chi avrebbe mai pensato di dover usare termini del genere a proposito dell’orchestrazione del Verdi di quegli anni!) e uno scavo profondo nelle pieghe della psiche contorta e tormentata del personaggio. Per far questo Gatti non ha avuto bisogno di tempi veloci e di molti decibel – tutt’altro – e la sua direzione non era mai troppo vistosa. Ha potuto realizzare tutto questo anche grazie ad un’orchestra in forma eccellente e a sua volta l’orchestra per suonare così aveva bisogno di un direttore come Gatti.

Ma non si sarebbero potuti ottenere tali risultati senza cantanti di gran classe, perfetti per stile e vocalità, ma ancor più ammirevoli come interpreti. Grandioso Roberto Frontali, che di Monfort, lo spietato governatore della Sicilia, rivela la vulnerabilità dell’uomo solitario e la tenerezza del padre amorevole e deluso. Michele Pertusi scopre come Procida sotto le apparenze del generoso patriota celi un animo da terrorista, pronto a servirsi cinicamente di ogni mezzo per raggiungere il suo scopo, anche a spese di quel popolo che dice di voler liberare dall’oppressione: si direbbe che negli ultimi anni Pertusi si sia “specializzato” nel tirar fuori la perfidia di tali personaggi apparentemente positivi. John Osborn non scava nell’interpretazione altrettanto a fondo del baritono e del basso, ma con la sua perfezione vocale e stilistica segue fedelmente il dettato verdiano e realizza il personaggio in tutte le sue sfumature. 

A completare il gruppo di protagonisti era Roberta Mantegna, più giovane e impulsiva dei suoi colleghi uomini e più propensa - superata una certa timidezza iniziale, sicuramente dovuta al timore di un debutto così importante – ad affidarsi totalmente ad una voce nel pieno del suo splendore, che conquista con la sua bellezza, sebbene qualche indizio lasci trapelare che farebbe meglio a rimandare di qualche anno l’approccio a ruoli cosi drammatici e pesanti. Quinto grande protagonista era il coro, preparato da Roberto Gabbiani. Ben realizzati i numerosi personaggi minori, tra cui per ragioni di spazio ci si deve limitare a citare Alessio Verna (Robert), Saverio Fiore (Thibault) e Dario Russo (Béthune).

La regia era firmata da Valentina Carrasco, con i costumi moderni – circa 1940 - di Luis F. Carvalho e le scene di Richard Peduzzi, consistenti in semplici parallelepipedi grigi in cui si aprono piccole e buie porte e finestre: apparentemente chiunque avrebbe potuto disegnarle, ma la mano del grande scenografo si avverte nella metafisica inquietudine di quelle case inabitabili e fuori dal tempo. Sicuramente non siamo a Palermo nel 1282, potremmo essere in ogni luogo e in ogni epoca, forse siamo nella Spagna franchista (le divise sono inequivocabili) e quella che vi si svolge non è una lotta patriottica contro lo straniero (non c’è distinzione tra siciliani e francesi) ma una feroce e spietata guerra civile: dunque non il bene contro il male, secondo l’ottica risorgimentale, ma il male assoluto. Le torture nella torre-prigione, le esecuzioni sommarie con i cadaveri gettati nella strada e portati via di nascosto, lo stupro delle donne da parte dei soldati franchisti, aizzati da Procida stesso per spingere i suoi a ribellarsi a tale violenza.

Di quest’ultimo aspetto della guerra, di come cioè le donne siano le vittime indifese della guerra, Carrasco fa uno dei punti centrali della sua regia: queste donne – o piuttosto i loro fantasmi – tornano più volte in scena come spettatrici e anche attrici di quella guerra. Aprono anche il grande balletto del terzo atto, che in tal modo – invece di portare in scena le personificazioni delle stagioni con codazzo di ninfe e fauni, come da libretto – si collega all’opera sia al suo inizio che alla fine, quando a danzare sono già i protagonisti della scena seguente, la grande festa nel palazzo di Montfort. In questo lunghissimo balletto succedono anche cose incomprensibili (almeno per il sottoscritto) ma la coreografia della stessa Carrasco e di Massimiliano Volpini non ha mai un calo di tensione ed è uno dei momenti forti dello spettacolo. Semmai è la regia ad avere accanto a bei momenti anche varie zone opache, quando il coro è pressoché immobile, schierato in riga o accalcato in gruppi, e i cantanti sono lasciati ad una recitazione assolutamente generica.

Applausi calorosissimi per Gatti e i cantanti, mescolati a qualche buh! per la Carrasco e la sua squadra.

       

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