L’anima oscura di Barbablù 

A Stoccarda l’artista visuale Hans Op de Beeck allestisce l’opera di Bartók nel dismesso Centro di smistamento pacchi 

Il castello del duca Barbablù (foto Matthias Baus)
Il castello del duca Barbablù (foto Matthias Baus)
Recensione
classica
Stoccarda, Staatsoper (c/o Centro smistamento pacchi)
Il castello del duca Barbablù
02 Novembre 2018 - 11 Novembre 2018

Il centenario Teatro dell’Opera di Stoccarda si prepara a chiudere per lavori di restauro e ampliamento nelle prossime sette stagioni e intanto si cercano spazi alternativi. E allora si approfitta già in questa stagione del nuovo allestimento Castello di Barbablù, opera un po’ anomala di Bartók (Kodàly parlò di sinfonia scenica o piuttosto di un dramma accompagnato da una sinfonia) per un primo esperimento “extra moenia”. Lo spazio prescelto è quello del dismesso Centro di smistamento pacchi a qualche chilometro a nord del centro, non propriamente uno spazio industriale ma capace di accogliere la grande installazione acquatica dell’artista visivo belga Hans Op de Beeck creata come cornice spettacolare per il suo debutto teatrale. 

Ovviamente non c’è la grande sala gotica a forma circolare come prescrive il libretto di Bela Balázs ma nemmeno le sette porte che celano i segreti inconfessabili di Barbablù. C’è invece un grande spazio in penombra inondato di acqua scurissima, con due barche, qualche albero rinsecchito, un isolotto con un barile in cui brucia un fuoco, e un piccolo molo illuminato da due file di fioche lampadine che si spinge fino al centro della grande sala. Abolito il prologo recitato, una piccola pattuglia di maestri di cerimonie istruisce gli spettatori su come prepararsi alla passeggiata notturna in quello spazio (con calosce fornite per l’occasione) e anticipa la chiave interpretativa dello spettacolo: non si racconta una favola crudele ma la storia di una coppia, che vuol essere prototipo di tutti noi. Quello spazio in penombre è il riflesso di un paesaggio interiore e quella palude una metafora del lato più insondabile dell’anima di Barbablù. 

Guadando quell’acqua nera in processione per conquistare il proprio posto, si è avvolti da uno spazio sonoro attraversato da voci che bisbigliano parole incomprensibili e da suoni ipnotici di trombe. E poi si comincia. Lui arriva in bicicletta su quel molo e lei camminando in quell’acqua nera con un grande zaino sulle spalle. La lotta comincia. Lei lo insegue e lui sembra come scoraggiarla di continuo con le sue domande: “Judith, ti fermi? Vorresti tornare indietro?” Quando lei varca quell’ultima, metaforica, porta, si consuma il suo fallimento: non entra più nessuna luce in quello spazio buio nel quale viene inghiottito Barbablù. Giuditta resta sola, seduta su quel molo che si allunga verso il buio. L’amore è possibile? 

 

 

Si tratta dunque di una lettura radicale anche se non priva di fascino, che non è però quello oscuramente simbolico dell’affascinante favola di Bela Balasz, che coniuga la fantasia crudele di Perrault con le atmosfere sospese di Maurice Maeterlinck. Straordinario comunque resta l’accompagnamento sinfonico di Bela Bartók, che splende nella tesissima e scintillante esecuzione della Staatsorchester di Stoccarda diretta da Titus Engel. Ottime le prove dei due interpreti Falk Struckmann, un Barbablù dolente e rassegnato all’ineluttabilità della condizione umana, e Claudia Mahnke, una Judith combattente disperata ad alta temperie drammatica. 

Tutte esaurite la quattro recite in programma. Pubblico curioso e generoso di applausi.

 

 

 

 

 

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